“La natura ha dato alle donne un
tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco”.

Alla donna del Medioevo e del
Rinascimento, incatenata nei ruoli prefissati di madre, figlia o
vedova, vergine o prostituta, santa o strega, era negata ogni
possibilità di
scelta di vita personale.
Ciascuna, pertanto, doveva conformarsi a
tradizionali modelli: ossia
a Maria, per la vergine e monaca; a Eva, per la moglie e madre che
doveva assicurare la progenie; e all’amazzone, per l’anziana
fidata e silenziosa.Tutte coloro che non rientravano in queste
categorie sociali erano ritenute http://sospette.La donna, reietta,
lato “sinistro” della creazione, era, dunque, ai
margini di una società
maschile
che deteneva un potere assoluto.Gli
ambienti clericali formularono il paradosso che la donna è
debole, ma
regge il mondo: infatti
Dio, affinché l’uomo non scivoli nella superbia, si serve di essa,
priva di virtù congenite, per compiere grandi imprese.Ma, se
falliva, l’erede della progenitrice era colpevole verso Dio, poiché
ne aveva ostacolato la gloria.
“Si può notare che c’è come un
difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata
fatta con una costola curva, […] come se fosse contraria all’uomo.
[…] Fu Eva a sedurre Adamo, e siccome il peccato di Eva non ci
avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo se non fosse
seguita la colpa di Adamo, cui questi fu indotto da Eva e non dal
diavolo, perciò la donna è più amara della morte […] perché la
morte è naturale e uccide solo il corpo, ma il peccato, che è
cominciato con la donna, uccide l’anima […] e perché la morte
corporea è un nemico manifesto e terribile, mentre la donna è un
nemico blando e occulto. […] E sia benedetto l’Altissimo che […]
ha voluto nascere e soffrire per noi in questo sesso (maschile) e
perciò lo ha privilegiato”.
Sulla base di questi assunti, si
affermò il
dovere di “custodia”
che gli uomini dovevano esercitare
sulle donne, in quanto esse non sono capaci di autodominarsi, ma sono
possedute dai propri organi, in particolare dall’utero.

Questo pregiudizio misogino ha
un’illustre fonte, si tratta, infatti, di una reminiscenza del
Timeo
di
Platone, nel quale si
afferma che:
“nelle femmine, ciò che si
chiama matrice o utero è, in esse, come un essere vivente posseduto
dal desiderio di fare figli”.
Se non protetta dalla tutela
maschile, sia amorevole che autoritaria, la donna rischia, quindi, di
perdere la purezza, il valore supremo di cui può fregiarsi il sesso
femminile.
Quindi il marito condannava la propria
compagna a una vita appartata: nelle case signorili le veniva
addirittura riservato uno spazio, detto “camera delle signore”,
in cui l’uomo aveva libero accesso, che si configurava sia come
luogo di seduzione, sia come gineceo e, talora, addirittura come una
“prigione” dove essa viveva, segregata, in compagnia delle sue
sorelle, delle nutrici e dei figli ancora in tenera età.L’unica
alternativa a questa opprimente forma di custodia, che
inevitabilmente degenerava nella sottomissione, era il
monachesimo: solo nel
deserto e nei monasteri era possibile per le donne, liberate
dell’obbligo patriarcale di partorire figli, vivere con margini di
autonomia.
“La donna è di vetro, e quindi
non si deve far la prova se si possa rompere o no, perché tutto può
essere. Ma è più facile che si rompa, e quindi sarebbe una pazzia
esporre al rischio di rompersi ciò che, dopo, non si può più
accomodare”. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della
Mancia.
Nel corso del XII secolo, alle
costruzioni ideologiche promosse dagli ambienti ecclesiastici
subentrarono quelle ideate dall’aristocrazia cavalleresca.
I guerrieri del Medioevo,
supponendo che le donne avessero un rapporto privilegiato con le
potenze invisibili, sia maligne che benigne, attribuivano ad esse la
preziosissima facoltà di
intercedere
in loro favore presso il Giudice
più temibile, Dio.

La relazione fra i due sessi, subendo
l’influenza del modello offerto dal codice di vassallaggio feudale,
si sublimò nelle forme poetiche dell’amor cortese. Venne,
così, a imporsi, in alternativa all’esaltazione della castità e
dell’ascesi, una concezione positiva dell’amore, in cui il
desiderio e la passione erotica non erano più oggetto di disprezzo e
condanna. La donna, nella poesia lirica italiana del XII e del XIII
secolo, dalla Scuola Siciliana al Dolce Stil Novo, diventò
l’incarnazione, in forme leggiadre, di un essere superiore dotato
di pieni poteri sull’amante.
La finalità di quest’amore non era,
dunque, la soddisfazione di un appetito istintivo, ma il continuo
spasmo dell’uomo, vincolato alla contingenza, verso un bene
irraggiungibile: l’assoluto.
Infatti, i versi dei poeti, ben
lontani dal descrivere fisionomie femminili corporee definite,
elaboravano figure simboliche astratte, aeree e pallide. Questi
sfocati ritratti di “madonne” ispiratrici, condannate al silenzio
e all’anonimato, testimoniano quanto il ruolo della donna nella
società era, allora, subalterno e privo di autonomia esistenziale.
“Io voglio del ver la mia donna
laudare
ed asembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella dïana splende e
pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei
somiglio.
[…]Passa per via adorna, e sì
gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona
salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la
crede;
e no ‘lle po’ apressare om che
sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior
vertute:
null’om po’ mal pensar fin che
la vede”.
Guido
Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare.
Nella poesia comica
vennero “rovesciati”, nella
dimensione deformante della parodia, i motivi e linguaggi topici del
mondo cortese. Ottenne attenzione, infatti, l’aspetto, più
realistico e carnale, ma al contempo più meschino, dell’esperienza
amorosa. Il
vituperium, sostituendosi
all’encomio, descriveva la donna come avida, lussuriosa,
traditrice, ingannatrice e maliziosa.

Nella produzione letteraria di
Giovanni Boccaccio
si rappresenta chiaramente la
tensione bipolare nei confronti dell’universo femminile. Il
Decameron, infatti, fu
dedicato alle
“vaghe donne”
che nascondono le loro passioni
amorose e
“oltre a ciò ristrette da’
voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri,
de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito
delle loro camere racchiuse dimorano”.
Nel Proemio l’autore si propose
di rimediare, con il diletto generato dalle novelle, al “peccato di
fortuna”, cioè alla condizione di inferiorità della donna nella
società del tempo, che egli considerava il risultato di una mera
circostanza sociale sfavorevole, non di un limite proprio del gentil
sesso. Ma nel
Corbaccio, operetta
satirica in cui veniva riesumato il topos della insaziabilità
femminile, Boccaccio fu in preda ad un incontrollabile accanimento
misogino sugli aspetti disgustosi del corpo della donna e sugli
artifici con cui ella, ingannevolmente, li cela. Il titolo forse
alludeva alla figura gracchiante del corvo, simbolo, nei Bestiari,
sia di maldicenza e aggressività, ma anche, poiché strappa alle
carogne gli occhi e il cervello, della passione sensuale che accieca
e priva di senno l’uomo. Nelle lunghe pagine di enfasi retorica
contro i vizi di tutte le donne, Boccaccio si riallacciava alla
precedente tradizione misogina, da Giovenale ai Padri della
Chiesa, fino ai moralisti del Medioevo e ai clerici vagantes.
“La femina è animale imperfetto,
passionato da mille passioni spiacevoli e abominevoli pure a
ricordarsene, non che a ragionare: il che se gli uomini guardassero
come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro
diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili
opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo
peso, come con istudioso passo fuggono, così il loro fuggirebbono,
quello avendo fatto che per la deficiente umana prole si ristora; sì
come ancora tutti gli altri animali, in ciò molto più che gli
uomini savi, fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei: non il
porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di
loro”.
Giovanni Boccaccio,
Corbaccio.
Appare una singolare coincidenza che
nello stesso anno di pubblicazione del
Malleus maleficarum
si avesse l’edizione fiorentina
di tale opera satirica.

Nonostante l’autonomia di giudizio
rispetto alle auctoritas, anche gli
umanisti
ebbero, di solito, scarsa stima
della donna. La pedagogia rinascimentale, rifacendosi a una fitta
schiera di esempi classici e biblici, intendeva dimostrare la
congenita “devianza” femminile, ossia la tendenza a distogliere
l’uomo dal suo compito: se Ulisse resistette a Calipso, Enea a
Didone e Giuseppe alla moglie di Putifarre, al contrario Sansone fu
vinto da Dalila, Davide da Betsabea nuda e Ercole da Onfale, perfino
Aristotele si lasciò cavalcare dalla cortigiana Fillide e Virgilio
sospendere in un paniere da Febilla. La perversione della donna era
raffigurata anche nei tormenti che Giobbe, Tobia, Socrate e Dante
ebbero dalle loro mogli.
Il
De dignitate hominis,
scritto nel 1486 da Giovanni Pico della Mirandola, era, nella sua
esaltazione dell’intelletto, davvero pionieristico, ma invitava i
soli maschi a godere della libertà: Dio aveva rivolto solo ad Adamo
le parole in base alle quali l’uomo è artefice del proprio
destino.
Il
Rinascimento, quindi,
riservava alle donne il suo lato più ombroso, contraddittorio,
dionisiaco e saturnino.
“Did women have a
Reinassance?”,
“c’è stato un Rinascimento
per le donne?”, si è chiesta Joan Kelly. A questa
domanda, posta in chiave schiettamente polemica, viene risposto,
quasi sempre, in modo totalmente negativo. Esse, tuttavia, hanno
saputo ugualmente ritagliarsi
spazi di espressione nella
letteratura, nella vita religiosa e negli atti processuali dei
tribunali. La voce delle donne, infatti, si levò in difesa della
natura femminile affiancandosi a quella, certo ben più corposa,
degli uomini, nella
querelle du sexes.
Una scrittrice, in particolare, osò
emergere con coraggio dalla schiera inerte delle tacite figure, per
ribellarsi ai pregiudizi maschili:
Christine de Pizan.
Per anni discusse pubblicamente
con i più insigni rappresentanti della cultura francese contro lo
stereotipo femminile creato dal Roman de la rose, nel quale trovavano
felice accoglimento numerosi motti misogini.
In polemica con il
De mulieribus claris
di Boccaccio, l’erudita francese
diede vita al suo capolavoro:
Le livre de la citè des dames.
Tale opera mette in scena un
dialogo nel quale l’autrice e, sotto le spoglie di dame incoronate,
Ragione, Rettitudine e Giustizia, elaborano il progetto di una città
fortificata destinata alle donne degne di stima, purtroppo emarginate
dalla società. Si offriva, tramite il ricorso all’utopia, un
messaggio di speranza
secondo il quale sarebbe mutato,
un giorno, il destino della donna. Secondo Christine non esistono
differenze di valore fra maschi e femmine, né nell’anima né nel
corpo. Le donne, infatti, hanno pari facoltà intellettive, ma poiché
godono di minori possibilità di erudizione e esperienza, divengono
vittime, anziché dominatrici, del proprio destino.
Nelle corti del
Cinquecento la donna non fu
più costretta a uniformarsi ai modelli di Eva, Maria e
dell’amazzone, ma, rivestendo per la prima volta un ruolo pubblico,
divenne anche “donna di palazzo”. Tuttavia, la nuova
figura di gentildonna era, in realtà, ancora il frutto, purtroppo
marcio, dell’immaginario maschile. La dama doveva avere le medesime
caratteristiche del cortigiano, enumerate da Baldassare Castiglione,
sintetizzabili nella “grazia” delle maniere, delle parole, dei
gesti, del portamento: alla donna, in aggiunta, si addiceva unì
tenerezza molle e delicata e una
soave mansuetudine.
Nel XVI secolo si compì anche il
processo di formalizzazione giuridica dell’istituto familiare,
all’interno del quale la donna trovava una collocazione precisa.
L’ideale femminile si cristallizzò e si approdò, così, alla
drastica alla distinzione delle donne in due categorie: le
oneste, che vivevano nella
famiglia o nel chiostro, e le
cortigiane, che
esercitavano la prostituzione, riunendo in sé il piacere e la
rispettabilità. E tale bipolarità manichea, evolutasi in forme
diverse nel fluire dei secoli, non è stata facile da sradicare.
“Con l’immaginazione si può
sempre adorare una donna, non è altrettanto facile amarla”.