mercoledì 7 luglio 2021

In che modo monache e monaci vivono una vita di solitudine senza i piaceri terreni che altri possono avere? È un modo di vivere realistico nel mondo moderno?

Ai nostri tempi, una vita comunitaria del genere è retaggio di pochi eletti; pochi ricordano che la nostra cultura è dovuta proprio alla figura di un monaco. Leggendo libri di scuola e anche testi della tradizione greco e latina, tutti noi abbiamo incontrato una figura che non merita l’oblio che ha subìto.

È la figura del monaco amanuense che - per oltre mille anni - ci ha tramandato i testi della cultura greco-latina; ha avuto un influsso determinante sulla nostra civiltà occidentale. Erano religiosi, ritiratisi a vita comunitaria nei conventi, dediti allo studio e alla preghiera; affascinati quindi dalla “bellezza” di una vita offerta a Dio e dai valori evangelici.



Lo dobbiamo a quell’umile e modesta ma importantissima figura, se le grandi opere di quelle culture sono arrivate sino a noi. Sono stati autentici educatori; trascrivevano i testi antichi con una penna d’oca, alla luce di una tremolante fiammella di candela, prezioso ausilio di quelle fatiche e capolavori. In un angolo del loro scriptorium, un solo testimone: un teschio, a ricordare il prossimo grande appuntamento: sorella morte, come la definivano quei monaci, fiduciosi nella provvidenza divina.

Unico “svago”, il momento delle laudi comunitarie; proprio un “ora et labora” che impreziosiva ogni ora della giornata. Ci hanno lasciato in eredità miniature, così chiamate per l’uso del minio, (il rosso cinabro famoso tra gli alchimisti di ogni epoca), tanto belle e perfette, da essere considerate delle vere e proprie opere d’arte.

Sentite con che stile questo anonimo monaco amanuense veronese, qualche secolo prima di Dante, descriveva, con un ironico ritornello in volgare, la sua arte: "Se pareba boves, alba pratalia aràba, albo versorio teneba, negro semen seminàba"…" Spingeva avanti i buoi (le dita), arava un campo bianco (il foglio di carta), teneva il bianco aratro (la penna d'oca), seminava un seme nero (l'inchiostro)".

Se non ci fossero state quelle umili figure, non avremmo tra le mani i testi dei filosofi greci nè latini e forse nemmeno di Dante o S.Tommaso e altri.

Come al solito, è l’umiltà a giocare un ruolo primario, con un prezioso lavorio dietro le quinte; un ruolo fondamentale che balza all’occhio solo a distanza di tempo. Possiamo tranquillamente affermare che il nostro patrimonio in opere d’arte ha avuto come prodromo e propulsore, l’umiltà e l’operosità dei monaci amanuensi; senza la loro paziente opera non avremmo avuto quel patrimonio di conoscenze delle epoche precedenti che ha ispirato tutti gli artisti più famosi.

Se togliamo alla Divina Commedia i riferimenti storici, può essere riassunta in poche paginette. Non dimentichiamo che Dante, nel momento in cui, dopo la morte di Beatrice, prende ad occuparsi, tra il 1291 e il 1294, di filosofia, dichiara di essersi recato “là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti”. In Convivio II 12/7.

Queste scuole sono state tradizionalmente identificate in alcuni importanti studia legati a ordini religiosi attivi a Firenze negli ultimi decenni del XIII secolo; quello domenicano presso il Convento di Santa Maria Novella, quello Francescano di Santa Croce e quello Agostiniano di Santo Spirito.