lunedì 13 dicembre 2021

Quanto costava mantenere un castello nel Medioevo?


In generale, i prezzi erano molto diversi da quelli odierni. Il vero potere d'acquisto era molto più debole. Ad esempio, il cibo aveva un rapporto di 1:30 rispetto ai prezzi dei giorni nostri. Quindi, se 1 kg di grano costa 1 euro oggi, il prezzo per la stessa quantità nel 1300 era di 30 euro.
Per costruire un piccolo castello con un'unica grande torre centrale (palas), era necessario investire un importo medio di circa 800.000 euro, 600.000 euro per il pagamento di 30 operai specializzati e 200.000 euro per il materiale. Per il completamento erano necessari circa 8000 giorni lavorativi.




Ora, i costi di gestione di un castello dipendono molto da quante persone vivono lì, quante di loro erano soldati armati e dove in Europa si trovava il castello. Più un castello era a nord e più lontano era costruito, più costoso era trasportare lì le risorse necessarie. Durante periodi di carestia o guerre prolungate, i prezzi potevano salire fino al 500% in un solo mese.
L'attrezzatura per un singolo cavaliere armato con un cavallo da guerra costava circa 130.000 euro. Un cavallo da equitazione normale costa 25.000 euro, una mucca circa 5000 euro, un maiale 1000 euro.
In un castello medio vivevano e lavoravano circa 200 persone. 50 di loro erano operai specializzati, 5 erano cavalieri e il resto erano donne e bambini.





Tutti dovevano essere nutriti, pagati e curati. I vestiti e le scarpe erano estremamente costosi, così come tutti gli strumenti di ferro. Un semplice mantello costa circa 250 uova. Un semplice paio di scarpe costa circa 120 mele.


Latte, birra, porridge, uova, frutta e verdura erano le basi quotidiane. Zuppa al mattino, porridge a pranzo, pane, birra e burro a cena. Ma tutto sommato almeno un totale di 5000 calorie al giorno per un uomo adulto. Carne e pesce erano molto costosi e rari.
I lavoratori normali ricevevano i loro pagamenti il 50% in vitto e alloggio e il 50% in denaro. Durante l'inverno gli stipendi scendevano al 70% di uno stipendio estivo.


La differenza di stipendio tra un lavoratore specializzato e un cavaliere era di 1:10. Ciò significa che lo stipendio annuo di un cavaliere era 10 volte superiore.
Servizi come la scrittura di un documento o certificato ufficiale (certificati di proprietà, certificati di matrimonio, contratti) erano estremamente costosi. La stesura del certificato ufficiale per un maestro scultore in pietra costava l'equivalente di un'intera mucca.


La scultura di una piccola croce d'oro per la chiesa o la cappella costava l'importo di 10 stipendi annuali di un lavoratore.


Tenendo conto di tutto ciò, la gestione di un piccolo castello costava non meno di 5 milioni di euro all'anno.


domenica 12 dicembre 2021

Gli Aztechi praticavano sacrifici umani?

Sì.

Perché era la loro credenza come mezzo per impedire il sorgere del sole e credevano in un dio diverso che voleva un cuore umano da un essere umano.



Questa pratica finì quando gli spagnoli conquistarono l'impero azteco nel 1521 e fu introdotto il cattolicesimo e così quasi la maggioranza della popolazione azteca fu spazzata via a causa di antiche malattie introdotte dagli spagnoli.


sabato 11 dicembre 2021

Com' era la vita di un neonato, fino ai primi anni di età, nel Medioevo?


Vita dura per i neonati nel Medioevo e anche per le madri, perché pare che una donna su tre morisse per complicazioni legate alla gravidanza o al parto.


Anche quando andava tutto bene, partorire significava dover sopportare un dolore fisico molto intenso; cercare di alleviarlo sarebbe stata considerata una colpa. Il parto infatti doveva essere a tutti i costi un evento doloroso, perché tale era stata la condanna data da Dio a Eva.
Nel caso di morte della madre, il bambino veniva estratto dal suo ventre (sectio in mortua), per ragioni connesse all’eredità e per riuscire a battezzarlo.


Appena nati, ai bambini toccava la fasciatura, come del resto è avvenuto fino a epoche non molto lontane: si credeva che le ossa tenere, se non sostenute, si sarebbero deformate. Quella di quei tempi, però, era una pratica al limite della tortura. Scriveva il medico Aldobrandino da Siena nel 1256 che la nutrice doveva far assumere al neonato le posizioni volute degli arti, "dargli bella forma" piegandolo come necessario, e poi fasciarlo: un lavoro che andava fatto bene, ammoniva il trattato, per non deformare il corpo del bambino. Occorrevano due metri di tessuto e il colore indicava la classe sociale, scuro (di canapa) per i poveri, bianco o rosso per gli aristocratici.


In questo particolare della Natività di Maria (Giotto, 1303 circa) la nutrice stringe il naso alla neonata, fasciata come si usava, perché il pianto le apra i polmoni.
Nelle classi agiate, la madre naturale quasi mai allattava: era invece normale affidarlo a una balia, in modo da poter avere nuove gravidanze. Quando veniva chiuso il contratto con la balia, poteva capitare che il bambino passasse da un giorno all'altro dal latte alle farinate, un passaggio spesso troppo precoce, che comportava gravi rischi per la salute e aumentava il tasso di mortalità già alto per i neonati.
Un altro dei rischi mortali che il neonato poteva correre era la caduta dal letto, un'eventualità per niente rara, oppure morire soffocato nel letto, schiacciato dalla balia che lo faceva dormire con sé. Era un incidente così frequente da essere contemplato tra i peccati più abituali da confessare per le donne.
Quando era più grandicello e cominciava a uscire per le strade, un'altra minaccia per un bambino era l'aggressione di cani, che accadeva così spesso da essere usata come "scusa", da parte di una balia negligente, per nascondere altri tipi di incidenti.
Quando non erano intenti a sfuggire a questi pericoli, i bambini del medioevo giocavano, come tutti i bambini:


Sono un'ottantina i giochi rappresentati in questa tavola di Pieter Bruegel, del 1560. Anche se di epoca più tarda, i passatempi dei bambini dei secoli precedenti non dovevano essere molto diversi: gli astragali (in basso a sinistra), ossa di animali lanciate in aria e di cui c'era da indovinare la combinazione delle facce, le bambole, le bolle di sapone (sempre nell'angolo a sinistra), finti cavalieri e finte spose, altalena, capriole, moscacieca, bocce...


Sono pochissime le immagini medioevali che illustrano bambine mentre giocano: le piccole ritratte con in mano una bambola appartengono alle classi sociali più elevate. In questo caso, però, l'oggetto, più che un divertimento, serve a modellare il futuro che le aspetta: spose e madri, oppure monache. In questo ritratto, Isabella d'Austria a poco più di due anni stringe una bambola che è una damina perfettamente agghindata. Il gioco era un'anticipazione del ruolo a cui era destinata.
I bambini giocavano per lo più all'aperto con la trottola, il cerchio, il volano (un "antenato" del tennis). C'erano anche i trampoli, che erano in realtà uno strumento di lavoro per i pastori, usato per controllare dall'alto le greggi e muoversi velocemente tra i capi di bestiame. D'inverno, quando veniva ucciso il maiale, i bimbi avevano a disposizione la vescica, che gonfiavano e utilizzavano come una palla.
Nell'immagine, la miniatura Due bambini giocano al volano, contenuta nel Libro d'Ore (1400 circa) conservato alla Bodleian Library di Oxford.


Sembra che i bambini, anche quelli molto piccoli, non ricevessero molto amore in epoca medievale. Data l'alta mortalità infantile del tempo, stimata di uno o due su tre, investire amore in un bimbo piccolo era forse considerato inutile o forse il valore della prole veniva sminuito dalla frequenza dei parti. Un bambino moriva e un altro ne prendeva il posto. Come scrisse Filippo di Novara nel duecento: "sono così sporchi e fastidiosi nell'infanzia e così disobbedienti e capricciosi, che a stento varrebbe la pena di allevarli". Nell'insieme si ha l'impressione che i neonati e i bambini piccoli venissero lasciati sopravvivere o morire, senza grande preoccupazione, fino ai cinque-sei anni. L'effetto psicologico che questo può avere avuto sul carattere, e magari sulla storia, è da immaginare.


venerdì 10 dicembre 2021

Esisteva il razzismo contro i neri nel medioevo?

Incontro di Sant'Erasmo e San Maurizio, Patrono Cattolico dei Soldati:


Dipinto del XVI secolo di San Maurizio, di Matthias Grünewald:



Statua di San Maurizio del III secolo dalla Cattedrale di Magdeburgo


St. Maurice (aka Mauritius) era il comandante di una legione romana dell'Africa settentrionale che rifiutava l'ordine dei suoi padroni pagani di uccidere i cristiani, per questo fu martirizzato. Quando l'Impero Romano cadde e il Cattolicesimo salì al suo posto, San Maurizio fu canonizzato come patrono dei soldati. I cattolici di tutta Europa hanno riconosciuto l'africano San Maurizio come uno dei loro eroi.


Ma poi l'Europa entrò nella tratta degli schiavi e fu ricoperto di "bianco" lo lavò


Il martirio di San Maurizio di El Greco. 1580-1582


Con l'aumentare della partecipazione europea alla tratta degli schiavi, le raffigurazioni di San Maurizio passarono dal mostrare un uomo africano dalla pelle scura a quella di un europeo dalla pelle chiara e non avrebbero più raffigurato uno dei loro santi come un uomo nero quando lo status di uomini neri era degradato nella loro società. La visione europea degli africani sarebbe ulteriormente devoluta nell'era dell'illuminismo quando il razzismo del tempo sarebbe stato "giustificato" con mezzi "scientifici".

Quando disumanizzare l'Africano divenne redditizio, il razzismo sbocciò in Europa.


giovedì 9 dicembre 2021

Perché la formazione della falange non è stata usata durante il Medioevo?

 



La tattica di fanteria conosciuta come "muro di scudi" non ebbe alcuna utilità durante le invasioni dei magiari del 900.



Ottone il Grande scoprì che i lancieri montati, cioè i cavalieri, erano molto più efficaci contro gli arcieri a cavallo. Sconfisse gli ungheresi nella battaglia di Lechfeld, vicino ad Augusta, nel 955.




mercoledì 8 dicembre 2021

Quanto era colta la maggioranza dei cavalieri nell'Alto Medioevo (1000-1300)?

Questo è un piccolo esame. Riesci a leggere il testo seguente, in maniera chiara e corretta?

Miserere mei, Deus: secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum tuarum, dele iniquitatem meam.
Amplius lava me ab iniquitate mea: et a peccato meo munda me.

Ci sei riuscito? Allora congratulazioni. Sì, perché sei appena stato accusato di un crimine e, secondo le leggi medievali inglesi, solo riuscendo a dimostrare di riuscire a leggere queste parole in latino, puoi salvarti da una (qualsiasi) condanna di alto tradimento. Se hai passato il test, sei stato assolto.

Non è necessario che tu comprenda quelle parole (provengono dal Salmo 50 della Bibbia, e la prima riga si traduce: O Dio, abbi misericordia di me). Devi solo essere capace di LEGGERLE.

Questa regola, conosciuta come "Beneficio del Sacerdozio" è stata stabilita nel 1172 e si è poi formalizzata come test di cultura nel 1351. Si continuò ad utilizzarla fino al 1706, finché fu abolita del tutto. L'idea dietro questa pratica era piuttosto semplice: solo gli ecclesiastici erano colti e letterati, quindi se fossi stato in grado di leggere quel testo, avresti dimostrato legalmente di essere un prete o un monaco. I membri del clero erano esclusi dalla giurisdizione della corte reale e, quindi, erano esenti dalle punizioni più severe.

Detto questo, per rispondere alla tua domanda, nell'Alto Medioevo si dava per scontato che i cavalieri non potessero leggere. Se sapevano leggere, significa che erano preti.

La verità, comunque, è un po' più sfumata. Ci sono molte fonti nelle cronache di quei tempi che attestano che nobili, re e cavalieri sapevano leggere e scrivere –sebbene non era una cosa tipica e, quando accadeva, era un fatto ritenuto degno di nota–. Per esempio, Il re Enrico I d'Inghilterra lasciò tutti a bocca aperta quando lesse una lettera diplomatica da parte dello stesso re di Francia, invece che lasciare che fosse un suo segretario a leggerlo ad alta voce per tutti. Geoffrey, Conte di Angiò, possedeva una copia del manuale militare Romano De Re Militari di Vegezio. Se lo portò con sé durante una campagna militare, in modo che potesse leggerlo e consultarlo.


L'autore medievale Jean Froissart presenta una copia del suo ultimo libro al re Riccardo II d'Inghilterra.


Una stima che avevo letto tempo fa, attesta che nel 1300 solo il 6% della popolazione era colta. Nelle città e nei grandi villaggi questa cifra poteva raggiungere il 20%, una persona su cinque quindi; in questi posti d'altronde, vivevano numerosi mercanti, contabili, avvocati e giudici. Invece, nei piccoli villaggi rurali – dove viveva la maggior parte delle persone – il numero di persone letterate era molto più basso.

Bada bene che sono numeri che si riferiscono all'Inghilterra, anche se la situazione non doveva essere poi così diversa altrove, in particolare nell'Europa Occidentale. Nel mondo mediterraneo, specialmente in Italia, con le sue città mercantili, i livelli di alfabetizzazione erano più alti. Nel 1304 la città di Genova possedeva 15 scuole indipendenti (indipendenti dalla Chiesa s'intende); qui si insegnava a leggere e scrivere, per lo più ai figli della classe mercantile.

Alfabetizzazione, comunque, è un termine piuttosto vasto. Chi sapeva leggere alcuni passaggi della Bibbia o riusciva a interpretare le liste dell'inventario delle merci, avrebbe potuto comunque avere difficoltà a capire testi più tecnici, trattati scientifici, o semplici poesie. Sembra anche che nel Medioevo molte persone sapevano leggere, ma non erano in grado di scrivere.

Per i membri dell'Aristocrazia, cavalieri inclusi, l'alfabetizzazione era considerata una mera virtù, ma non un'abilità utile a fini pratici. Se sapevi leggere, potevi capire la Bibbia, conoscere le vite dei Santi, oppure riflettere sui lavori di filosofia e le scienze naturali (avresti anche potuto leggere romanzi medievali equivalenti a quelli moderni, che erano molto popolari all'interno di alcune cerchie – ad esempio la Regina Isabella, figlia di Filippo IV di Francia, possedeva ben 10 di questi romanzi –). Comunque, per la contabilità, molti mercanti avrebbero preferito assumere appositi commercialisti.

I contratti sarebbero stati per lo più espressi a voce, accompagnati da giuramenti sacri: un prete o un notaio sarebbero stati pagati per rifinire i dettagli e riportarli su alcuni manoscritti. A volte, il contratto veniva semplicemente strappato in due parti, ciascuna delle quali veniva data ai diretti interessati. In caso di una disputa, avrebbero unito i fogli per vedere se le estremità combaciassero (nota: alle parti in contesa non interessava nemmeno leggere il contratto).

Leggere era anche un'attività piuttosto comunitaria. Su 10 persone, solo una sarebbe stata in grado di leggere, quindi avrebbe potuto farlo ad alta voce, in una sala o in una piazzetta davanti a tutte le altre persone presenti.

Nel XIV e nel XV secolo, l'istruzione cominciò a diffondersi; nel 1500 il tasso di alfabetizzazione relativo all'Inghilterra era probabilmente il doppio di quello che c'era stato due secoli prima. Le testimonianze storiche parlano di nobili che possedevano dozzine di libri - una statistica impressionante se si considera che ogni libro doveva essere copiato a mano. Le corti iniziarono a tenere registri scritti - anche i tribunali dei più umili villaggi cominciavano a scrivere i loro lavori alla fine di questo periodo storico; spesso si scrivevano mischiando l'Inglese e il Francese Normanno in maniera piuttosto confusa. Famiglie nobili come i Paston di Norfolk si scambiarono innumerevoli lettere. Persino un cavaliere delinquente come Sir Thomas Malory – famoso rapinatore, stupratore, rapitore e ladro di cavalli – trovò il tempo di scrivere un libro mentre era in prigione. È ancora in stampa oggi.


martedì 7 dicembre 2021

Chi viene considerata la donna più bella del Medioevo?

La natura ha dato alle donne un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco”.



Alla donna del Medioevo e del Rinascimento, incatenata nei ruoli prefissati di madre, figlia o vedova, vergine o prostituta, santa o strega, era negata ogni possibilità di scelta di vita personale. Ciascuna, pertanto, doveva conformarsi a tradizionali modelli: ossia a Maria, per la vergine e monaca; a Eva, per la moglie e madre che doveva assicurare la progenie; e all’amazzone, per l’anziana fidata e silenziosa.Tutte coloro che non rientravano in queste categorie sociali erano ritenute http://sospette.La donna, reietta, lato “sinistro” della creazione, era, dunque, ai margini di una società maschile che deteneva un potere assoluto.Gli ambienti clericali formularono il paradosso che la donna è debole, ma regge il mondo: infatti Dio, affinché l’uomo non scivoli nella superbia, si serve di essa, priva di virtù congenite, per compiere grandi imprese.Ma, se falliva, l’erede della progenitrice era colpevole verso Dio, poiché ne aveva ostacolato la gloria.

Si può notare che c’è come un difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una costola curva, […] come se fosse contraria all’uomo. […] Fu Eva a sedurre Adamo, e siccome il peccato di Eva non ci avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo se non fosse seguita la colpa di Adamo, cui questi fu indotto da Eva e non dal diavolo, perciò la donna è più amara della morte […] perché la morte è naturale e uccide solo il corpo, ma il peccato, che è cominciato con la donna, uccide l’anima […] e perché la morte corporea è un nemico manifesto e terribile, mentre la donna è un nemico blando e occulto. […] E sia benedetto l’Altissimo che […] ha voluto nascere e soffrire per noi in questo sesso (maschile) e perciò lo ha privilegiato”.

Sulla base di questi assunti, si affermò il dovere di “custodia” che gli uomini dovevano esercitare sulle donne, in quanto esse non sono capaci di autodominarsi, ma sono possedute dai propri organi, in particolare dall’utero.



Questo pregiudizio misogino ha un’illustre fonte, si tratta, infatti, di una reminiscenza del Timeo di Platone, nel quale si afferma che: “nelle femmine, ciò che si chiama matrice o utero è, in esse, come un essere vivente posseduto dal desiderio di fare figli”. Se non protetta dalla tutela maschile, sia amorevole che autoritaria, la donna rischia, quindi, di perdere la purezza, il valore supremo di cui può fregiarsi il sesso femminile.

Quindi il marito condannava la propria compagna a una vita appartata: nelle case signorili le veniva addirittura riservato uno spazio, detto “camera delle signore”, in cui l’uomo aveva libero accesso, che si configurava sia come luogo di seduzione, sia come gineceo e, talora, addirittura come una “prigione” dove essa viveva, segregata, in compagnia delle sue sorelle, delle nutrici e dei figli ancora in tenera età.L’unica alternativa a questa opprimente forma di custodia, che inevitabilmente degenerava nella sottomissione, era il monachesimo: solo nel deserto e nei monasteri era possibile per le donne, liberate dell’obbligo patriarcale di partorire figli, vivere con margini di autonomia.

La donna è di vetro, e quindi non si deve far la prova se si possa rompere o no, perché tutto può essere. Ma è più facile che si rompa, e quindi sarebbe una pazzia esporre al rischio di rompersi ciò che, dopo, non si può più accomodare”. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia.

Nel corso del XII secolo, alle costruzioni ideologiche promosse dagli ambienti ecclesiastici subentrarono quelle ideate dall’aristocrazia cavalleresca. I guerrieri del Medioevo, supponendo che le donne avessero un rapporto privilegiato con le potenze invisibili, sia maligne che benigne, attribuivano ad esse la preziosissima facoltà di intercedere in loro favore presso il Giudice più temibile, Dio.



La relazione fra i due sessi, subendo l’influenza del modello offerto dal codice di vassallaggio feudale, si sublimò nelle forme poetiche dell’amor cortese. Venne, così, a imporsi, in alternativa all’esaltazione della castità e dell’ascesi, una concezione positiva dell’amore, in cui il desiderio e la passione erotica non erano più oggetto di disprezzo e condanna. La donna, nella poesia lirica italiana del XII e del XIII secolo, dalla Scuola Siciliana al Dolce Stil Novo, diventò l’incarnazione, in forme leggiadre, di un essere superiore dotato di pieni poteri sull’amante.

La finalità di quest’amore non era, dunque, la soddisfazione di un appetito istintivo, ma il continuo spasmo dell’uomo, vincolato alla contingenza, verso un bene irraggiungibile: l’assoluto. Infatti, i versi dei poeti, ben lontani dal descrivere fisionomie femminili corporee definite, elaboravano figure simboliche astratte, aeree e pallide. Questi sfocati ritratti di “madonne” ispiratrici, condannate al silenzio e all’anonimato, testimoniano quanto il ruolo della donna nella società era, allora, subalterno e privo di autonomia esistenziale.

Io voglio del ver la mia donna laudare

ed asembrarli la rosa e lo giglio:

più che stella dïana splende e pare,

e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

[…]Passa per via adorna, e sì gentile

ch’abassa orgoglio a cui dona salute,

e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;

ancor ve dirò c’ha maggior vertute:

null’om po’ mal pensar fin che la vede”.

Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare.

Nella poesia comica vennero “rovesciati”, nella dimensione deformante della parodia, i motivi e linguaggi topici del mondo cortese. Ottenne attenzione, infatti, l’aspetto, più realistico e carnale, ma al contempo più meschino, dell’esperienza amorosa. Il vituperium, sostituendosi all’encomio, descriveva la donna come avida, lussuriosa, traditrice, ingannatrice e maliziosa.



Nella produzione letteraria di Giovanni Boccaccio si rappresenta chiaramente la tensione bipolare nei confronti dell’universo femminile. Il Decameron, infatti, fu dedicato alle “vaghe donne” che nascondono le loro passioni amorose e “oltre a ciò ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano”. Nel Proemio l’autore si propose di rimediare, con il diletto generato dalle novelle, al “peccato di fortuna”, cioè alla condizione di inferiorità della donna nella società del tempo, che egli considerava il risultato di una mera circostanza sociale sfavorevole, non di un limite proprio del gentil sesso. Ma nel Corbaccio, operetta satirica in cui veniva riesumato il topos della insaziabilità femminile, Boccaccio fu in preda ad un incontrollabile accanimento misogino sugli aspetti disgustosi del corpo della donna e sugli artifici con cui ella, ingannevolmente, li cela. Il titolo forse alludeva alla figura gracchiante del corvo, simbolo, nei Bestiari, sia di maldicenza e aggressività, ma anche, poiché strappa alle carogne gli occhi e il cervello, della passione sensuale che accieca e priva di senno l’uomo. Nelle lunghe pagine di enfasi retorica contro i vizi di tutte le donne, Boccaccio si riallacciava alla precedente tradizione misogina, da Giovenale ai Padri della Chiesa, fino ai moralisti del Medioevo e ai clerici vagantes.

La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionare: il che se gli uomini guardassero come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo peso, come con istudioso passo fuggono, così il loro fuggirebbono, quello avendo fatto che per la deficiente umana prole si ristora; sì come ancora tutti gli altri animali, in ciò molto più che gli uomini savi, fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei: non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro”. Giovanni Boccaccio, Corbaccio.

Appare una singolare coincidenza che nello stesso anno di pubblicazione del Malleus maleficarum si avesse l’edizione fiorentina di tale opera satirica.



Nonostante l’autonomia di giudizio rispetto alle auctoritas, anche gli umanisti ebbero, di solito, scarsa stima della donna. La pedagogia rinascimentale, rifacendosi a una fitta schiera di esempi classici e biblici, intendeva dimostrare la congenita “devianza” femminile, ossia la tendenza a distogliere l’uomo dal suo compito: se Ulisse resistette a Calipso, Enea a Didone e Giuseppe alla moglie di Putifarre, al contrario Sansone fu vinto da Dalila, Davide da Betsabea nuda e Ercole da Onfale, perfino Aristotele si lasciò cavalcare dalla cortigiana Fillide e Virgilio sospendere in un paniere da Febilla. La perversione della donna era raffigurata anche nei tormenti che Giobbe, Tobia, Socrate e Dante ebbero dalle loro mogli. Il De dignitate hominis, scritto nel 1486 da Giovanni Pico della Mirandola, era, nella sua esaltazione dell’intelletto, davvero pionieristico, ma invitava i soli maschi a godere della libertà: Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l’uomo è artefice del proprio destino.

Il Rinascimento, quindi, riservava alle donne il suo lato più ombroso, contraddittorio, dionisiaco e saturnino. “Did women have a Reinassance?”, “c’è stato un Rinascimento per le donne?”, si è chiesta Joan Kelly. A questa domanda, posta in chiave schiettamente polemica, viene risposto, quasi sempre, in modo totalmente negativo. Esse, tuttavia, hanno saputo ugualmente ritagliarsi spazi di espressione nella letteratura, nella vita religiosa e negli atti processuali dei tribunali. La voce delle donne, infatti, si levò in difesa della natura femminile affiancandosi a quella, certo ben più corposa, degli uomini, nella querelle du sexes.

Una scrittrice, in particolare, osò emergere con coraggio dalla schiera inerte delle tacite figure, per ribellarsi ai pregiudizi maschili: Christine de Pizan. Per anni discusse pubblicamente con i più insigni rappresentanti della cultura francese contro lo stereotipo femminile creato dal Roman de la rose, nel quale trovavano felice accoglimento numerosi motti misogini.

In polemica con il De mulieribus claris di Boccaccio, l’erudita francese diede vita al suo capolavoro: Le livre de la citè des dames. Tale opera mette in scena un dialogo nel quale l’autrice e, sotto le spoglie di dame incoronate, Ragione, Rettitudine e Giustizia, elaborano il progetto di una città fortificata destinata alle donne degne di stima, purtroppo emarginate dalla società. Si offriva, tramite il ricorso all’utopia, un messaggio di speranza secondo il quale sarebbe mutato, un giorno, il destino della donna. Secondo Christine non esistono differenze di valore fra maschi e femmine, né nell’anima né nel corpo. Le donne, infatti, hanno pari facoltà intellettive, ma poiché godono di minori possibilità di erudizione e esperienza, divengono vittime, anziché dominatrici, del proprio destino.

Nelle corti del Cinquecento la donna non fu più costretta a uniformarsi ai modelli di Eva, Maria e dell’amazzone, ma, rivestendo per la prima volta un ruolo pubblico, divenne anche “donna di palazzo”. Tuttavia, la nuova figura di gentildonna era, in realtà, ancora il frutto, purtroppo marcio, dell’immaginario maschile. La dama doveva avere le medesime caratteristiche del cortigiano, enumerate da Baldassare Castiglione, sintetizzabili nella “grazia” delle maniere, delle parole, dei gesti, del portamento: alla donna, in aggiunta, si addiceva unì tenerezza molle e delicata e una soave mansuetudine.

Nel XVI secolo si compì anche il processo di formalizzazione giuridica dell’istituto familiare, all’interno del quale la donna trovava una collocazione precisa. L’ideale femminile si cristallizzò e si approdò, così, alla drastica alla distinzione delle donne in due categorie: le oneste, che vivevano nella famiglia o nel chiostro, e le cortigiane, che esercitavano la prostituzione, riunendo in sé il piacere e la rispettabilità. E tale bipolarità manichea, evolutasi in forme diverse nel fluire dei secoli, non è stata facile da sradicare.

Con l’immaginazione si può sempre adorare una donna, non è altrettanto facile amarla”.