martedì 7 dicembre 2021

Chi viene considerata la donna più bella del Medioevo?

La natura ha dato alle donne un tale potere che la legge ha giustamente deciso di dargliene poco”.



Alla donna del Medioevo e del Rinascimento, incatenata nei ruoli prefissati di madre, figlia o vedova, vergine o prostituta, santa o strega, era negata ogni possibilità di scelta di vita personale. Ciascuna, pertanto, doveva conformarsi a tradizionali modelli: ossia a Maria, per la vergine e monaca; a Eva, per la moglie e madre che doveva assicurare la progenie; e all’amazzone, per l’anziana fidata e silenziosa.Tutte coloro che non rientravano in queste categorie sociali erano ritenute http://sospette.La donna, reietta, lato “sinistro” della creazione, era, dunque, ai margini di una società maschile che deteneva un potere assoluto.Gli ambienti clericali formularono il paradosso che la donna è debole, ma regge il mondo: infatti Dio, affinché l’uomo non scivoli nella superbia, si serve di essa, priva di virtù congenite, per compiere grandi imprese.Ma, se falliva, l’erede della progenitrice era colpevole verso Dio, poiché ne aveva ostacolato la gloria.

Si può notare che c’è come un difetto nella formazione della prima donna, perché essa è stata fatta con una costola curva, […] come se fosse contraria all’uomo. […] Fu Eva a sedurre Adamo, e siccome il peccato di Eva non ci avrebbe portato alla morte dell’anima e del corpo se non fosse seguita la colpa di Adamo, cui questi fu indotto da Eva e non dal diavolo, perciò la donna è più amara della morte […] perché la morte è naturale e uccide solo il corpo, ma il peccato, che è cominciato con la donna, uccide l’anima […] e perché la morte corporea è un nemico manifesto e terribile, mentre la donna è un nemico blando e occulto. […] E sia benedetto l’Altissimo che […] ha voluto nascere e soffrire per noi in questo sesso (maschile) e perciò lo ha privilegiato”.

Sulla base di questi assunti, si affermò il dovere di “custodia” che gli uomini dovevano esercitare sulle donne, in quanto esse non sono capaci di autodominarsi, ma sono possedute dai propri organi, in particolare dall’utero.



Questo pregiudizio misogino ha un’illustre fonte, si tratta, infatti, di una reminiscenza del Timeo di Platone, nel quale si afferma che: “nelle femmine, ciò che si chiama matrice o utero è, in esse, come un essere vivente posseduto dal desiderio di fare figli”. Se non protetta dalla tutela maschile, sia amorevole che autoritaria, la donna rischia, quindi, di perdere la purezza, il valore supremo di cui può fregiarsi il sesso femminile.

Quindi il marito condannava la propria compagna a una vita appartata: nelle case signorili le veniva addirittura riservato uno spazio, detto “camera delle signore”, in cui l’uomo aveva libero accesso, che si configurava sia come luogo di seduzione, sia come gineceo e, talora, addirittura come una “prigione” dove essa viveva, segregata, in compagnia delle sue sorelle, delle nutrici e dei figli ancora in tenera età.L’unica alternativa a questa opprimente forma di custodia, che inevitabilmente degenerava nella sottomissione, era il monachesimo: solo nel deserto e nei monasteri era possibile per le donne, liberate dell’obbligo patriarcale di partorire figli, vivere con margini di autonomia.

La donna è di vetro, e quindi non si deve far la prova se si possa rompere o no, perché tutto può essere. Ma è più facile che si rompa, e quindi sarebbe una pazzia esporre al rischio di rompersi ciò che, dopo, non si può più accomodare”. Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia.

Nel corso del XII secolo, alle costruzioni ideologiche promosse dagli ambienti ecclesiastici subentrarono quelle ideate dall’aristocrazia cavalleresca. I guerrieri del Medioevo, supponendo che le donne avessero un rapporto privilegiato con le potenze invisibili, sia maligne che benigne, attribuivano ad esse la preziosissima facoltà di intercedere in loro favore presso il Giudice più temibile, Dio.



La relazione fra i due sessi, subendo l’influenza del modello offerto dal codice di vassallaggio feudale, si sublimò nelle forme poetiche dell’amor cortese. Venne, così, a imporsi, in alternativa all’esaltazione della castità e dell’ascesi, una concezione positiva dell’amore, in cui il desiderio e la passione erotica non erano più oggetto di disprezzo e condanna. La donna, nella poesia lirica italiana del XII e del XIII secolo, dalla Scuola Siciliana al Dolce Stil Novo, diventò l’incarnazione, in forme leggiadre, di un essere superiore dotato di pieni poteri sull’amante.

La finalità di quest’amore non era, dunque, la soddisfazione di un appetito istintivo, ma il continuo spasmo dell’uomo, vincolato alla contingenza, verso un bene irraggiungibile: l’assoluto. Infatti, i versi dei poeti, ben lontani dal descrivere fisionomie femminili corporee definite, elaboravano figure simboliche astratte, aeree e pallide. Questi sfocati ritratti di “madonne” ispiratrici, condannate al silenzio e all’anonimato, testimoniano quanto il ruolo della donna nella società era, allora, subalterno e privo di autonomia esistenziale.

Io voglio del ver la mia donna laudare

ed asembrarli la rosa e lo giglio:

più che stella dïana splende e pare,

e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

[…]Passa per via adorna, e sì gentile

ch’abassa orgoglio a cui dona salute,

e fa ‘l de nostra fé se non la crede;

e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;

ancor ve dirò c’ha maggior vertute:

null’om po’ mal pensar fin che la vede”.

Guido Guinizzelli, Io voglio del ver la mia donna laudare.

Nella poesia comica vennero “rovesciati”, nella dimensione deformante della parodia, i motivi e linguaggi topici del mondo cortese. Ottenne attenzione, infatti, l’aspetto, più realistico e carnale, ma al contempo più meschino, dell’esperienza amorosa. Il vituperium, sostituendosi all’encomio, descriveva la donna come avida, lussuriosa, traditrice, ingannatrice e maliziosa.



Nella produzione letteraria di Giovanni Boccaccio si rappresenta chiaramente la tensione bipolare nei confronti dell’universo femminile. Il Decameron, infatti, fu dedicato alle “vaghe donne” che nascondono le loro passioni amorose e “oltre a ciò ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano”. Nel Proemio l’autore si propose di rimediare, con il diletto generato dalle novelle, al “peccato di fortuna”, cioè alla condizione di inferiorità della donna nella società del tempo, che egli considerava il risultato di una mera circostanza sociale sfavorevole, non di un limite proprio del gentil sesso. Ma nel Corbaccio, operetta satirica in cui veniva riesumato il topos della insaziabilità femminile, Boccaccio fu in preda ad un incontrollabile accanimento misogino sugli aspetti disgustosi del corpo della donna e sugli artifici con cui ella, ingannevolmente, li cela. Il titolo forse alludeva alla figura gracchiante del corvo, simbolo, nei Bestiari, sia di maldicenza e aggressività, ma anche, poiché strappa alle carogne gli occhi e il cervello, della passione sensuale che accieca e priva di senno l’uomo. Nelle lunghe pagine di enfasi retorica contro i vizi di tutte le donne, Boccaccio si riallacciava alla precedente tradizione misogina, da Giovenale ai Padri della Chiesa, fino ai moralisti del Medioevo e ai clerici vagantes.

La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionare: il che se gli uomini guardassero come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportunità vadano; i luoghi delle quali, posto giù il superfluo peso, come con istudioso passo fuggono, così il loro fuggirebbono, quello avendo fatto che per la deficiente umana prole si ristora; sì come ancora tutti gli altri animali, in ciò molto più che gli uomini savi, fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei: non il porco, qualora è più nel loto convolto, aggiugne alla bruttezza di loro”. Giovanni Boccaccio, Corbaccio.

Appare una singolare coincidenza che nello stesso anno di pubblicazione del Malleus maleficarum si avesse l’edizione fiorentina di tale opera satirica.



Nonostante l’autonomia di giudizio rispetto alle auctoritas, anche gli umanisti ebbero, di solito, scarsa stima della donna. La pedagogia rinascimentale, rifacendosi a una fitta schiera di esempi classici e biblici, intendeva dimostrare la congenita “devianza” femminile, ossia la tendenza a distogliere l’uomo dal suo compito: se Ulisse resistette a Calipso, Enea a Didone e Giuseppe alla moglie di Putifarre, al contrario Sansone fu vinto da Dalila, Davide da Betsabea nuda e Ercole da Onfale, perfino Aristotele si lasciò cavalcare dalla cortigiana Fillide e Virgilio sospendere in un paniere da Febilla. La perversione della donna era raffigurata anche nei tormenti che Giobbe, Tobia, Socrate e Dante ebbero dalle loro mogli. Il De dignitate hominis, scritto nel 1486 da Giovanni Pico della Mirandola, era, nella sua esaltazione dell’intelletto, davvero pionieristico, ma invitava i soli maschi a godere della libertà: Dio aveva rivolto solo ad Adamo le parole in base alle quali l’uomo è artefice del proprio destino.

Il Rinascimento, quindi, riservava alle donne il suo lato più ombroso, contraddittorio, dionisiaco e saturnino. “Did women have a Reinassance?”, “c’è stato un Rinascimento per le donne?”, si è chiesta Joan Kelly. A questa domanda, posta in chiave schiettamente polemica, viene risposto, quasi sempre, in modo totalmente negativo. Esse, tuttavia, hanno saputo ugualmente ritagliarsi spazi di espressione nella letteratura, nella vita religiosa e negli atti processuali dei tribunali. La voce delle donne, infatti, si levò in difesa della natura femminile affiancandosi a quella, certo ben più corposa, degli uomini, nella querelle du sexes.

Una scrittrice, in particolare, osò emergere con coraggio dalla schiera inerte delle tacite figure, per ribellarsi ai pregiudizi maschili: Christine de Pizan. Per anni discusse pubblicamente con i più insigni rappresentanti della cultura francese contro lo stereotipo femminile creato dal Roman de la rose, nel quale trovavano felice accoglimento numerosi motti misogini.

In polemica con il De mulieribus claris di Boccaccio, l’erudita francese diede vita al suo capolavoro: Le livre de la citè des dames. Tale opera mette in scena un dialogo nel quale l’autrice e, sotto le spoglie di dame incoronate, Ragione, Rettitudine e Giustizia, elaborano il progetto di una città fortificata destinata alle donne degne di stima, purtroppo emarginate dalla società. Si offriva, tramite il ricorso all’utopia, un messaggio di speranza secondo il quale sarebbe mutato, un giorno, il destino della donna. Secondo Christine non esistono differenze di valore fra maschi e femmine, né nell’anima né nel corpo. Le donne, infatti, hanno pari facoltà intellettive, ma poiché godono di minori possibilità di erudizione e esperienza, divengono vittime, anziché dominatrici, del proprio destino.

Nelle corti del Cinquecento la donna non fu più costretta a uniformarsi ai modelli di Eva, Maria e dell’amazzone, ma, rivestendo per la prima volta un ruolo pubblico, divenne anche “donna di palazzo”. Tuttavia, la nuova figura di gentildonna era, in realtà, ancora il frutto, purtroppo marcio, dell’immaginario maschile. La dama doveva avere le medesime caratteristiche del cortigiano, enumerate da Baldassare Castiglione, sintetizzabili nella “grazia” delle maniere, delle parole, dei gesti, del portamento: alla donna, in aggiunta, si addiceva unì tenerezza molle e delicata e una soave mansuetudine.

Nel XVI secolo si compì anche il processo di formalizzazione giuridica dell’istituto familiare, all’interno del quale la donna trovava una collocazione precisa. L’ideale femminile si cristallizzò e si approdò, così, alla drastica alla distinzione delle donne in due categorie: le oneste, che vivevano nella famiglia o nel chiostro, e le cortigiane, che esercitavano la prostituzione, riunendo in sé il piacere e la rispettabilità. E tale bipolarità manichea, evolutasi in forme diverse nel fluire dei secoli, non è stata facile da sradicare.

Con l’immaginazione si può sempre adorare una donna, non è altrettanto facile amarla”.


lunedì 6 dicembre 2021

Lady Godiva (Old English Godgifu)

 


Lady Godiva (Old English Godgifu) era una nobildonna anglosassone dell'XI secolo e moglie di Leofric, conte di Mercia. Era, a detta di tutti, un'anima gentile e generosa e fece molte grandi donazioni alla chiesa. Ma Godiva è meglio ricordata per aver recitato in una leggenda del XIII secolo piuttosto scandalosa, in cui si diceva che avesse cavalcato nuda per le strade della città di Coventry (un po' riparata alla vista dai suoi capelli incredibilmente lunghi, ma ancora nuda. ) per convincere il marito a concedere al popolo una riduzione delle tasse.



La leggenda della cavalcata nuda è registrata per la prima volta nel XIII secolo, nel Flores Historiarum e l'adattamento di esso da parte di Ruggero di Wendover. Nonostante la sua considerevole età, non è considerata plausibile dagli storici moderni, né viene citata nei due secoli intercorsi tra la morte di Godiva e la sua prima apparizione, mentre le sue generose donazioni alla chiesa ricevono varie menzioni.

Secondo la versione tipica della storia, Lady Godiva ebbe pietà della gente di Coventry, che soffriva gravemente sotto la tassazione opprimente del marito. Lady Godiva si appellò ripetutamente al marito, che si rifiutava ostinatamente di abbassare le tasse. Alla fine, stanco delle sue suppliche, disse che avrebbe accolto la sua richiesta se si fosse spogliata e avesse cavalcato a cavallo per le strade della città. Lady Godiva lo prese in parola e, dopo aver emesso un proclama secondo cui tutte le persone dovevano rimanere in casa e chiudere le finestre, attraversò la città vestita solo dei suoi lunghi capelli. Solo una persona in città, un sarto da allora conosciuto come Peeping Tom, ha disobbedito al suo proclamo in quello che è il più famoso esempio di voyeurismo.

Alcuni storici hanno individuato elementi dei rituali pagani della fertilità nella storia di Godiva, per cui una giovane "regina di maggio" veniva condotta all'albero sacro di Cofa, forse per celebrare il rinnovamento della primavera. La forma più antica della leggenda ha Godiva che attraversa il mercato di Coventry da un'estremità all'altra mentre il popolo era riunito, assistita solo da due cavalieri. Questa versione è data nel Flores Historiarum da Ruggero di Wendover (morto nel 1236), un collezionista di aneddoti un po 'credulone. In una cronaca scritta negli anni Sessanta del Cinquecento, Richard Grafton affermò che la versione fornita nel Flores Historiarum proveniva da una "cronaca perduta" scritta tra il 1216 e il 1235 dal Priore del monastero di Coventry.

Una versione modificata della storia è stata fornita dallo stampatore Richard Grafton, in seguito eletto deputato per Coventry. Secondo la sua cronaca d'Inghilterra (1569), "Leofricus" aveva già esentato il popolo di Coventry da "qualsiasi maner di Tolle, eccetto che per i cavalli", così che Godiva ("Godina" nel testo) aveva acconsentito alla cavalcata nuda solo per ottenere lo sgravio per questa tassa sui cavalli. E come condizione, ha chiesto ai funzionari di Coventry di vietare alla popolazione "per un suo grande dolore" di guardarla, e di chiudersi e chiudere tutte le finestre il giorno della sua corsa. Grafton era un ardente protestante e ripulì la storia precedente.

La ballata "Leoffricus" nel Percy Folio (circa 1650) è conforme alla versione di Grafton, dicendo che Lady Godiva eseguì la sua cavalcata per rimuovere la dogana pagata sui cavalli, e che gli ufficiali della città ordinarono ai cittadini di "chiudere il loro dore e applaudire con le loro finestre abbassate ”e rimasero in casa il giorno della sua corsa.



Non importa quale versione del racconto abbiamo a che fare, è comunque piuttosto interessante. Voglio dire, cosa potrebbe desiderare di più un maschio libertario americano a sangue rosso in un mito britannico? La calda moglie di qualche idiota tiranno si lancia in una sfida, si spoglia fino al completo da compleanno e cavalca il nekkid per le strade della città, a cavallo, con i lunghi capelli sciolti, per convincere suo marito a smettere di tassare così tanto la gente. Non si può fare a meno di provare simpatia per l'eroina dal cuore grande e corposo del racconto. Non solo è un racconto divertente e piuttosto eccitante, è anche un po 'più plausibile di molti altri miti e leggende - e il solo pensiero che possa essere accaduto fa davvero aumentare la tensione, se capisci cosa intendo.


domenica 5 dicembre 2021

Esattamente quanto era abile in combattimento un cavaliere medievale, e in cosa erano specializzati?

"Di tutte le vocazioni [mestiere] che dovrebbero essere insegnate il più presto possibile nell'infanzia ci sono due, la più alta e più onorevole a Dio e al mondo, cioè il clero e la cavalleria; perché non si può essere un buon clerico se non si è iniziato dall'infanzia, e non cavalcherà mai bene chi non l'ha imparato da giovane". -Filip de Novara, cavaliere del XIII secolo, giurista, storico e filosofo.

Un cavaliere medievale era per definizione un guerriero a cavallo, e per svolgere questa funzione aveva bisogno di padroneggiare per primo l'arte dell'equitazione. Questo non significa cavalcare su un fantoccio su una pista predisposta dietro a un comandante. Non significa nemmeno cavalcare in un circolo ippico con un istruttore nel mezzo. Non significa saltare un ostacolo o dressage. L'equivalente moderno più vicino è la caccia reale ai segugi. Un cavaliere doveva essere in grado di cavalcare qualsiasi cavallo su qualsiasi tipo di terreno e con qualsiasi situazione meteorologica. Aveva bisogno di essere in grado di attraversare fiumi, di muoversi sul ghiaccio se si trovava nel nord Europa, di salire e scendere ripide salite, di cavalcare attraverso paludi, foreste, nebbia, fango e pioggia battente. Doveva essere in grado di gestire appieno il cavallo.



E poi, una volta che un giovane aveva imparato l'equitazione a questo alto livello di competenza, doveva iniziare a imparare a combattere a cavallo. Ci voleva circa un decennio per addestrare un cavaliere competente.



La specialità dei cavalieri era caricare in formazione stretta con una lancia, e poi combattere in scontro ravvicinato in una mischia con spada, ascia o mazza - la scelta era sua. Cavalieri diversi preferivano armi diverse, ma le spade erano più comuni.



Ovviamente, nel corso di 1000 anni di storia o 30 generazioni di cavalieri che vivono in un territorio che si estendeva dall'Islanda a Gerusalemme le capacità dei singoli cavalieri variavano. Stiamo parlando di ben 3 milioni di uomini nel corso del tempo. Sarebbe infatti meglio inquadrare le domande in modo più preciso, in particolare designando un periodo di tempo più ragionevole di 1.000 anni e una geografia più specifica (le competenze richieste ai cavalieri norvegesi erano diverse da quelle richieste in Spagna o a Gerusalemme!) Domande più specifiche incoraggerebbero risposte più qualificate e dettagliate.


sabato 4 dicembre 2021

Perché nel Medioevo schiaffeggiare una persona con il guanto era un segno di sfida?

Il segno di sfida dei cavalieri medievali consisteva in realtà nel gettare il guanto davanti a chi si intendeva sfidare. Il guanto rappresentava la sfida a duello perché era la più importante protezione per la mano che brandiva l’arma; si dovevano presentare giustificazioni validissime per tirarsi indietro.

Chi non raccoglieva il guanto, accettando la sfida, perdeva l'onore e passava per "vile fellone". Era l’accusa più disonorevole, l’infamia. Se lo sfidato moriva prima del duello, si chiamava un medico a verificare che il decesso non fosse stato causato dalla paura (come si potesse stabilire, non lo so). In tal caso, il giudice decretava vincitore il sopravvissuto.



Durante il Rinascimento il duello ebbe una nuova dignità, ma era considerato valido solo se permesso formalmente dall’autorità pubblica. Tanto che diventò materia di grande discussione tra i giuristi. Uno dei cavilli su cui ci si accapigliava riguardava l’identificazione del provocatore e del provocato, una differenza non da poco visto che a chi veniva sfidato spettava la scelta del campo, del giorno e dell’arma, oltre alla decisione di protrarre lo scontro al primo o all’ultimo sangue. Insomma, vantaggi evidentemente non da poco.

I termini della sfida venivano resi pubblici attraverso i “cartelli” con cui, a distanza, i duellanti se ne dicevano di tutti i colori. Prima di arrivare allo scontro c’erano poi altri passaggi obbligati: stabilire un giudice, solitamente un signore locale che potesse concedere un campo su cui combattere, e uno o due arbitri, di solito nobili, uomini d’armi o giuristi. I duellanti nominavano i “padrini”, avvocati che ne tutelavano i diritti coadiuvati da un notaio, un armaiolo e dagli amici di parte (i “confidenti”). Tutte queste formalità distinguevano il duello lecito da quello “alla macchia” che poteva scoppiare senza troppi complimenti tra le teste più calde.

Ma che cosa provocava il disonore e quindi l’ira di un uomo? La peggiore offesa era il mancato rispetto della parola data, che poteva voler dire anche insidiare la moglie altrui. Ma a volte bastava molto meno, uno sguardo storto e piccole provocazioni in seguito alle quali il nobile non poteva esimersi dal difendere il suo onore.



Anche se nel tempo questo modo di risolvere le controversie private venne proibito dalla legge, il reato di duello è stato cancellato dal codice penale italiano appena una decina di anni fa, nel 1999.


venerdì 3 dicembre 2021

I cavalieri medievali andavano davvero in cerca di avventure



Si e no.

O meglio, l'idea del cavaliere errante che andava in cerca di avventure è principalmente un'invenzione della letteratura cavalleresca medievale, che nei secoli è entrata nel nostro immaginario collettivo.

Questa figura però aveva un corrispettivo nel mondo reale, nel senso che nel medioevo, soprattutto negli ultimi secoli, non era così raro che dei cavalieri decidessero di lasciare la propria terra per andare in cerca di fortuna e mettersi al servizio di qualche nobile o sovrano.

Le "opportunità" per guerrieri professionisti come loro non mancavano. Le ragioni potevano essere tante, a volte erano dei nobili impoveriti, esiliati o caduti in disgrazia che diventavano dei mercenari, oppure erano uomini spinti dall'ambizione e dalla prospettiva di fama e ricchezza. Altri ancora, molto semplicemente si davano al brigantaggio.



giovedì 2 dicembre 2021

Cos'è il "terrore dell'anno 1000" ?

Mille e non più mille: oggi sfatiamo il mito che ha accompagnato il passaggio fra primo e secondo millennio dopo Cristo. Tante cose che diamo per scontate del Medioevo in realtà non sono affatto vere. Anzi, sono state inventate solo dopo secoli.

Ad esempio, la storia di Colombo e dei dotti di Salamanca è opera di Washington Irving, uno scrittore statunitense del ‘800.

Questi nella sua biografia del navigatore portoghese ha inserito questa grandiosa scena in cui l’esploratore discuteva con gli esperti della corte di Spagna sul fatto che la terra fosse o meno sferica. Per chi fosse interessato, ho già parlato di questo mito qui:

Un’altra leggenda a tema medioevale è quella delle paure dell’anno mille.

Un’altra leggenda a tema medioevale è quella delle paure dell’anno mille. Queste paure, manco a dirlo, non sono mai esistite. Ciò nonostante sono presenti in molti testi distribuiti fra il ‘700 e la prima metà del secolo scorso.

Ma in cosa consiste questa leggenda?

Le paure dell’anno mille si riferiscono genericamente all’idea che nel medioevo la gente pensava che il mondo sarebbe finito in quell’anno.

Spoiler medioevale di ciò che sarebbe successo il giorno della fine del mondo.

Nessuno lavorava i campi, nessuno faceva più guerre, e tutti affollavano le chiese.

Ovviamente, quando queste cose le dici nell’anno 750 non fanno molta impressione, ma man mano che l’anno 1000 si avvicinava, secondo la leggenda, il mondo si è quasi fermato. Nessuno lavorava i campi, nessuno faceva più guerre, e tutti affollavano le chiese.

Negli ultimi mesi del 999 il mondo si è davvero fermato, con la gente affollata nelle chiese a pregare e piangere. Questa, ovviamente, è una leggenda, ma nel 1800 ha avuto una fortissima influenza nella descrizione del medioevo come “secolo buio” e della “cattiva influenza della chiesa”.

Nel diciannovesimo secolo in effetti, tutti erano convinti dei terrori dell’anno mille, e la leggenda era presente in quasi tutti i libri di storia.

Esempio del medioevo visto come “Dark Age”, per lo meno per quanto riguarda la fotografia.

Per nostra fortuna già in quel periodo un sacco di gente scriveva e lasciava documenti.

Ma se questa è davvero una leggenda, come si fa a dimostrarne la falsità? Per nostra fortuna già in quel periodo un sacco di gente scriveva e lasciava documenti. Ad esempio, Papa Silvestro II, che avrebbe dovuto essere molto interessato alla cosa, il giorno di San Silvestro del 999 emana una bolla in cui conferma vari privilegi ad un monastero tedesco.

La bolla è particolarmente importante perché parla dell’obbligo del monastero tedesco di pagare dodici denari ogni anno in futuro. Queste non sono le parole di uno che si aspetta la fine del mondo. Ma Papa Silvestro II non era una persona normale: era un grande dotto, così dotto da essere sospettato anche di stregoneria.

Ma, magari, le persone normali erano davvero terrorizzate dall’anno mille.

Esistono invece documenti che attestano come, negli anni prima dell’anno 1000, ci siano una serie di contratti a lungo termine fra plebei e abati per la concessione di terre da coltivare. Chiaramente anche loro, come Papa Silvestro II, non pensavano che il mondo finisse all’inizio dell’anno 1000.

Piccolo esempio didascalico di contadino medioevale, anche se l’immagine probabilmente risale a dopo il mille.

Ma c’è un altro modo di controllare? Si possono guardare le cronache dell’epoca, nelle quali nessuno parla dei terrori dell’anno mille.

Ma c’è un altro modo di controllare? Si possono guardare le cronache dell’epoca, nelle quali nessuno parla dei terrori dell’anno mille. Non che nel medioevo fossero così laici da avere indifferenza per la fine del mondo. Anzi, un uomo del medioevo bene o male sapeva tutto della fine del mondo.

La trovava nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, un libro delirante e farraginoso in cui si parla della venuta dell’anticristo. L’unica cosa che l’uomo del medioevo non sapeva era quando la fine del mondo sarebbe arrivata.

Solo che nell’apocalisse San Giovanni gioca con il numero 1000 e secondo una certa interpretazione si potrebbe dedurre che il libro dica che satana verrà mille anni dopo la nascita di Cristo.

Appunto, nell’anno 1000.

L’apocalisse di San Giovanni in un quadro del fiammingo Jan Massijs del sedicesimo secolo.

Ma c’è stato qualcuno che ha avuto effettivamente paura della fine del mondo?

Ma c’è stato qualcuno che ha avuto effettivamente paura della fine del mondo? Abbone di Fleury, abate e grande intellettuale dell’epoca, nel 998 racconta della Francia dell’epoca, nella quale a suo avviso ci sono diverse cose che non vanno.

Una di queste è che, in passato, fra la plebe, si raccontavano storie riguardo la fine del mondo. I predicatori parlavano nelle strade, mentre i prelati tranquillizzavano la gente.

Quello che Abbone considera il passato è attorno al 970. Quindi, l’idea della fine del mondo girava, ma non era così diffusa, e comunque non a ridosso dell’anno mille.

I quattro cavalieri dell’apocalisse, più o meno come se li aspettava San Giovanni.

Qual è la genealogia dei terrori dell’anno mille?

Noi però siamo partiti dal fatto che storici accreditati del ‘700/’800/’900 abbiano scritto di questi terrori. Ma qual è la genealogia dei terrori dell’anno mille? Si tratta di una serie di autori che si sono copiati aggiungendo ogni volta qualcosina. Il primo colpevole è un cronista, Sigeberto di Gembloux.

Si tratta di un uomo colto, che legge i cronisti dell’anno 1000 e scopre che nel 1000 c’è stato un terremoto e una cometa nel 1002. Sigeberto semplifica e dice che, nel solo anno 1000, c’è stato un terremoto, una cometa ed è apparso un serpente nel cielo.

A sua discolpa, Sigeberto non dice che tutti hanno avuto paura. Si limita ad accumulare avvenimenti in un unico anno, evidentemente speciale. Anche lui, di fatto, è un millenarista, in quanto è stato afflitto dall’importanza di quell’anno tondo.

Nel 1170 un altro cronista scopre che nell’anno 1010 ci sono stati una carestia a un’eclisse. Alle quali aggiunge di sana pianta (nelle sue fonti non c’era) “e molta gente ha avuto paura”. In tutto il medioevo nessuno riprende questa frase, ne la storia dei terrori dell’anno mille.

Molto diverso il Rinascimento: Giovanni Tritemio, importante umanista tedesco del ‘500, riprende Sigeberto e le comete e i serpenti volanti. A questo, aggiunge che “la gente si spaventa e pensa che sia arrivato l’ultimo giorno”.

Di questo passo, autore dopo autore, ciascuno aggiunge una piccola parte.

Non sempre la gente scrive ciò di cui conosce, ma ciò che crede essere vero.

Questo è una lezione molto importante, in particolare nella storia: non sempre la gente scrive ciò di cui conosce, ma ciò che crede essere vero.

E, per un umanista del ‘500, il fatto che la povera gente di un’epoca oscura avesse paura dell’anno mille è qualcosa in cui si può credere senza problemi. Ed è per questa ragione che diventa un luogo comune.

Così nel ‘600, nel ‘700 e nell’800 tutti sanno che ci sono stati i terrori dell’anno mille. Inoltre c’è motivo per cui questa storia si diffonde. Le nazioni e le letterature moderne nascono dopo l’anno mille.

Ciò è dovuto a diversi fattori, ma per i primi veri storici del ‘700, che “sanno” che i terrori dell’anno mille ci sono stati, è facilissimo trovare in questi terrori la causa. Fino all’anno mille la gente era troppo terrorizzata per fare qualcosa. Dopo invece si sono messi in movimento.

Adesso sembra quasi ridicolo, ma questo è davvero il modo in cui gli intellettuali dell’epoca pensavano. Chi, in in quei due secoli, vuole scrivere per esempio la storia dell’Italia, comincia sempre con i terrori dell’anno mille. Se non altro perché prima ci sono pochissimi documenti.

E, a loro modo di vedere, un motivo deve esserci.

La corte di Federico II di Svevia a Palermo, uno dei luoghi in cui è nata la nostra cultura.

Facciamo un passo avanti e vediamo quando, come e perché la leggenda è stata sfatata.

Facciamo un passo avanti e vediamo quando, come e perché la leggenda è stata sfatata. Nell’800 la principale corrente di pensiero era legata ad un positivismo che vedeva nella chiesa un nemico. E a ragione.

La chiesa del diciannovesimo secolo era molto diversa da quella cui siamo abituati oggi. Infatti rifuggiva qualunque novità e si arroccava nell’assolutismo e nell’oscurantismo.

Il medioevo era visto, ed è visto tutt’ora, come il periodo storico in cui il potere della chiesa è stato maggiore. Nel diciannovesimo secolo la chiesa è vista come fonte di superstizione e ignoranza. Per cui, per lo storico del ‘800, era plausibile che in un momento storico in cui l’influenza della religione era tanto grande si fosse potuta diffondere una superstizione così forte.

Pio IX, paladino dell’Ancien Regime e strenuo difensore dello stato vaticano.

D’altro canto anche nel campo opposto, fra i clericali, c’era gente che si dava da fare. Combatteva una guerra per la propria fazione facendo ricerche e dicendo che, dei terrori dell’anno mille, non era vero niente.

Questa gente, oltre a dire che la chiesa non era affatto fonte di superstizione si è messa anche a controllare le fonti e le cronache, per vedere che cosa sia successo davvero.

Il primo a pubblicare un articolo intitolato “I pretesi timori dell’anno mille” è stato Francois Pleine, un prete francese, nel 1873.

L’articolo era parte dii una battaglia ideologica che il clero ottocentesco stava combattendo contro la modernità e il liberalismo. Ciò nonostante, il contenuto era frutto di una ricerca corretta, e i risultati erano corretti allo stesso modo.

Ricordiamoci che, mentre preti e storici si combattevano a colpi di articoli, nel 1873 il mondo affrontava la prima crisi economica.

I loro presupposti ideologici erano palesemente sbagliati (si parla di rifiuto della modernità e del riconoscimento delle libertà individuali) ciò nonostante buona parte del clero ha realizzato una buona storiografia. Di contro, tutti i grandi dell’800 per rafforzare la propria opinione hanno finito per costruire e credere ad una leggenda.

Questa è una lezione che rimane attuale anche oggi: costruire una storiografia oggettiva è estremamente complicato, ed è qualcosa che va al di là delle nostre personali opinioni ed ideologie. Non deve (o meglio, non dovrebbe) essere in relazione con ciò che consideriamo essere giusto o sbagliato.









mercoledì 1 dicembre 2021

Che aspetto aveva un campo di battaglia medievale dopo la battaglia?


Ci sono molti resoconti di prima mano pervenutici sulla battaglia di Agincourt tra Inghilterra e Francia nell'ottobre del 1415. Enrico V d'Inghilterra era parente del re di Francia quando morì e si sentì come se dovesse reclamare la Corona francese.

Nell'estate del 1415 attraversò il canale per presentare le sue pretese in Francia.

A ottobre il suo esercito più piccolo era indebolito dalla fame e dalle malattie, quindi stava tornando al porto di Calais in modo da poter tornare in Inghilterra.

Un esercito francese molto più grande interruppe la sua ritirata vicino al villaggio di Agincourt.

L'esercito di Enrico contava solo 5 o 6 mila uomini di cui solo un migliaio erano cavalieri corazzati e uomini in armi che erano a piedi.

L'equilibrio era costituito da arcieri longbow armati di frecce bodkin che si dice riuscissero a penetrare l'armatura a piastre da 300 iarde.

Trasportavano anche grosse mazze di legno da martellare gruppi di paletti di 5 piedi che li proteggevano dalle cariche di cavalleria.

L'esercito francese era costituito dal top della nobiltà francese.

C'erano 20.000 cavalieri a cavallo, 10.000 cavalieri smontati e uomini alle armi e circa 3.000 balestrieri.

La battaglia fu combattuta in un campo fangoso circondato da fitti boschi su entrambi i lati.

Gli eserciti si formarono a circa 1.000 iarde l'uno dall'altro alle estremità opposte della zona fangosa.

Il comandante francese, non aveva fretta di attaccare, quindi aspettò che gli ultimi elementi dell'esercito arrivassero sul campo.

Henry sapeva che il tempo era contro di lui dato che i francesi stavano guadagnando solo più uomini e il morale stava abbandonando i suoi uomini in numero maggiore.

Henry ordinò al suo esercito di avanzare di circa 300 metri attraverso il fango profondo fino al ginocchio con il loro carico di armi e armature.Impetuosi nobili francesi si rialzarono e si misero in formazione per caricare gli inglesi. Henry formò il suo esercito con la sua fanteria al centro con i longbowmen sui fianchi.

I longbowmen hanno rapidamente montato una selva di pali acuminati nascosti dal fango tra i loro ranghi.

20.000 cavalieri francesi caricarono direttamente contro i 5.000 inglesi mentre la fanteria francese smontata iniziò a muoversi verso il nemico.

Gli arcieri di Henry lanciarono salve di frecce ai cavalieri francesi, uccidendone molti e ferendone altre centinaia.

Peggio ancora, la maggior parte dei loro cavalli venne colpita da frecce che li mandò nel panico.

I cavalieri francesi che raggiunsero le linee inglesi furono loro stessi o i loro cavalli impalati sui pali mentre altri vacillarono e si ritirarono sotto una pioggia di frecce inglesi prima di calpestare i propri uomini della retroguardia.

Quindi immagina se riesci a sentire il suono bizzarro delle frecce che sfrecciano intorno a te mentre 20.000 cavalli tuonano sul campo di battaglia mentre 20.000 gole emettono un grido di battaglia.

Ora prova a immaginare le urla degli uomini che vengono forate dalle frecce e il frenetico nitrito dei cavalli che resistono alle stesse; solo loro non capiscono il perché.

I francesi smontati erano sfiniti quando raggiunsero le linee inglesi dopo essere stati investiti dai loro cavalieri in ritirata e aver sopportato una pioggia di frecce.

Tendevano a concentrarsi verso il centro dov'erano il re inglese e i suoi cavalieri.

I cavalieri francesi smontati, ancora fiduciosi della vittoria, intendevano catturare il maggior numero di nobili inglesi che potevano per il riscatto, che era l'usanza nel medioevo. Inoltre, i cavalieri francesi non erano interessati a combattere gli arcieri in combattimenti ravvicinati perché erano visti come socialmente inferiori.

Esausti, i cavalieri francesi iniziarono a subire un alto numero di vittime. Presto corpi francesi si accumularono in profondità 4 e 5 in alcuni punti, formando un muro di cadaveri che gli inglesi usarono come fortificazioni ad hoc.

A questo punto, gli arcieri avevano esaurito le frecce e avevano iniziato ad attaccare la fanteria francese sul fianco.

Li avrebbero linciati e poi avrebbero dato loro il colpo di grazia con le loro grandi mazze di legno.

Quindi immagina un muro di corpi che si accumula lungo la linea inglese, aspetta ... i caduti non muoiono subito.

Immagina di essere ferito da un numero qualsiasi di armi da mischia medievali e di scendere nel fango,nel sangue, nei fluidi intestinali e il piscio di terrore e avere altri uomini che ti sciamano sopra, spingendoti più in basso nel fango.

I francesi erano troppo sfiniti per ritirarsi di nuovo attraverso centinaia di metri di fango, quindi iniziarono ad arrendersi a frotte. Furono disarmati e riuniti in gruppi per essere riscattati in seguito.

Mentre la battaglia stava finendo, un'incursione di contadini francesi, guidati dal loro signore locale, era scivolata dietro il retro dell'esercito di Henry e stava facendo irruzione nelle salmerie inglesi dei bagagli.

Enrico, temendo che i suoi prigionieri si sollevassero e si riunissero alla battaglia, ordinò al suo esercito di iniziare a ucciderli.

I cavalieri rifiutarono l'ordine del loro re per diversi motivi. Innanzitutto, violava il codice cavalleresco che avevano giurato di sostenere e perché è difficile ottenere un riscatto per i morti.

Gli arcieri di Henry erano gente comune e non avevano tali riserve, quindi iniziarono allegramente a uccidere i francesi e saccheggiare i loro corpi.

Una volta che il raid nelle salmerie era stato respinto ed era chiaro che aveva vinto la battaglia, Enrico ordinò la fine del massacro. Quindi immagina il campo alla fine della battaglia.

Cavalli morti e morenti sparpagliati per tutto il campo fangoso. Immagina il muro di uomini morti e morenti in cui si erano arroccati gli inglesi. Immagina i loro gemiti e le loro grida pietose.

Immagina la scena mentre gli uomini frugavano freneticamente tra mucchi di corpi tra 4 e 5 strati di fango in profondità mentre provano a tirare fuori gli amici prima che possano affogare nella putrida lacuna di fango e fluidi corporei.

Cronisti medievali ci dicono che molti dei feriti hanno impiegato tutta la notte per morire mentre i sacerdoti si facevano strada attraverso il campo fangoso per consegnare gli Ultimi riti ai morenti.

I resoconti ci dicono che le grida dei morenti potevano essere ascoltate nel campo inglese per tutta la notte mentre si stringevano attorno ai loro fuochi.

La mattina seguente fu inviato un manipolo di arcieri inglesi per finire qualsiasi francese rimasto ferito e vivente sul campo di battaglia. Non abbiamo nemmeno parlato degli odori.