Lelio Brancaccio è un uomo di
guerra. Napoletano, a poco più di vent’anni rinuncia alla sua
eredità per entrare nei Cavalieri di Malta. Dal 1589 al 1637, anno
in cui trapassa, il Brancaccio rimane uno dei comandanti più leali
degli Asburgo.

Combatte contro nemici di ogni genere,
dai Turchi agli Olandesi. Alla veneranda età di 72 anni è ancora in
prima linea e organizza la difesa di Maastricht (1632). La sua opera
più famosa, I Carichi militari di Fra Lelio Brancaccio,
pubblicata nel 1610, è una interessante disamina sulla qualità
necessarie a soldati e ufficiali per adempiere ai loro doveri e sulla
gerarchia degli eserciti europei.
Nel 1610, Lelio Brancaccio ha oltre
trent’anni di esperienza pratica e teorica delle cose di guerra e
ogni pagina del suo trattato presenta elementi di grande interesse
per storici e appassionati.
Quello che descrive è un modo di fare
la guerra profondamente cambiato rispetto a solo cento anni prima. Il
) Il Tercio ( Tercio,anche Tercios spagnoli) era il termine
utilizzato dall'esercito spagnolo per descrivere un tipo di
organizzazione militare costituita da una parte di picchieri e una
parte di soldati armati con armi da fuoco (in
particolare,moschettieri e archibugieri.) domina sui campi di
battaglia e continua a farlo fino al primo quarto del XVI secolo.
Molti storici vedono nella Battaglia di Recroi (1643) la fine
definitiva del Tercio, ma, come dice bene il Prof. Nicola Zotti, ci
vollero ancora una quindicina d’anni prima di arrivare al crollo
definitivo.

Ad ogni modo, nel corso del XVI secolo,
le fanterie vedono una crescita esponenziale dei soldati dotati di
armi da fuoco e un continuo scemare di quelli armati di picca.
Non cambiano, però, le doti fisiche e
mentali necessarie ad esercitare questo mestiere.
Di seguito, troverete un estratto –
in italiano corrente, con link ipertestuali e box di approfondimento
– del capitolo dedicato al soldato semplice.
Del Soldato:
Negli eserciti è sempre stato
fondamentale il buon addestramento dei soldati. Gli stessi antichi
Romani (come ci riferisce Vegezio) riuscirono a vincere la resistenza
di ogni popolo barbaro e ad estendere il loro Impero fino alle
regioni più remote della Terra proprio grazie all’addestramento e
benché fossero spesso superati dal nemico come forza o numero. Prima
instradavano quelli che sembravano più adatti al combattimento, li
addestravano all’uso delle armi, e infine sceglievano i più
valorosi e mandavano via quelli che sarebbero stati di poco aiuto.
Per questo motivo, accingendomi a
trattare, in questo Libro, tutti i Gradi della Milizia (Officii
Graduati della Milizia), ho reputato necessario discorrere
innanzitutto del ruolo del soldato privato. Non è mia intenzione
elencare regole e precetti per l’istituzione di nuovi eserciti,
quanto rifarmi a quelli già costituiti per parlare, in questo
capitolo di alcune qualità necessarie al soldato per adempiere al
suo ruolo.
Di queste qualità, alcune sono
genetiche (naturali), altre costruite per mezzo dell’addestramento;
tratterò innanzitutto le prime. Vi sono due generi di qualità
naturali: la prestanza fisica e la forza d’animo.
La prestanza fisica si suddivide, a sua
volta, in due specie: forza (gagliardia) e destrezza (agilità
di membra). Entrambe sono qualità necessarie al soldato per riuscire
a resistere alla fatica e destreggiarsi agevolmente in tutti gli
scenari di guerra. Queste virtù sono senza dubbio dei doni di
Natura, ma si possono accrescere in modo importante anche attraverso
l’addestramento e l’esercizio. Di conseguenza gli scontri
d’allenamento, la corsa, il salto, il lancio del palo e cose del
genere possono, in misura pari alla natura, donare forza e destrezza.
Il soldato deve quindi praticarli, perché se non si esercita rimarrà
sempre poco abile, pur avendo a disposizione, magari, buone doti
fisiche genetiche e un animo nobile.

Particolare dalla Battaglia di Kircholm
(1605). Si vedono chiaramente i moschettieri con l’arma posta sulla
forcina ai lati dei picchieri.
L’ozio e i piaceri, d’altro canto,
diminuiscono la destrezza e la forza mentre nutrono le inezie e la
viltà; portano alla cura del vestiario, a prestare attenzione al
taglio di capelli, al camminare leggiadro nelle corti, fra le dame, e
non negli eserciti, fra i soldati. Chi si diletta in cose del genere,
non potrà mai avere l’animo disposto ad accettare i pericoli di
una guerra. Se a una persona ha paura di vedersi le scarpe sporche, o
che le sia torto un capello, non potrà mai lordarsi di fango durante
una marcia o combattere nel sangue. Uomini del genere non avranno mai
pensieri onorevoli, né la forza di compiere azioni coraggiose.
Un buon soldato deve vestire in modo
modesto, moderato nel godere dei piaceri della vita e abituato alla
vita militare, in modo che, tornato a impugnare le armi in seguito a
un periodo di pace, non debba soffrire troppo per le fatiche e i
disagi di una nuova campagna. In questo modo, il soldato è sempre
pronto ad affrontare la guerra e a servire il proprio Principe.
Inoltre, può guadagnare molto anche in salute e onore.
L’altra qualità naturale necessaria
al soldato è la menzionata forza d’animo. In primo luogo, bisogna
analizzare una sua specie, ossia l’ardire: senza questa virtù,
nessuno può definirsi un uomo, men che meno un soldato. Uno uomo
senza ardire è da disprezzare al pari di una donna senza vergogna.
Come si suol dire
“Qui animis et armis non
valent, rupes et inaccessa quaerant latibula”.
Anche quelli che non hanno una naturale
forza d’animo possono corroborarla pensando a famosi capitani che,
sebbene mediocri nel fisico, ebbero grande valore e forza d’animo.
Non bisogna essere così attaccati a questa vita, che alla fine si
deve comunque lasciare, da evitare di compiere azioni che potrebbero
darci un onore perpetuo. Non ci può essere un’azione più degna e
onorevole che esporsi alle insidie della guerra e spargere
volontariamente il sangue per il proprio Principe.
Nessuno deve pensare che si possa
ottenere la gloria senza correre pericoli. I Cesare e gli Alessandro
conquistarono territori immensi e gloria immortale, e spesso si
trovarono nel mezzo della battaglia e di scontri sanguinosi facendo
strada con il braccio, e scudo con il petto, ai loro eserciti. Il
nome di soldato lo si può guadagnare solo nel sangue e fra i
pericoli, perché non si possono conoscere valore e virtù guerriera
nell’ozio e nella pace.
Di conseguenza, chi ha intenzione di
ottenere un titolo nobile come quello di “soldato” deve attendere
le occasioni opportune, e rischiare intrepidamente la vita. E deve
farlo anche perché non tutte le palle delle armi da fuoco uccidono,
né tutte le punte feriscono, ed è più facile che finiscano
uccisi i codardi fuggitivi che non i combattenti valorosi, poiché i
primi, con la fuga, accrescono la confidenza del nemico, mentre i
secondi gliela sottraggono; i primi si privano di difesa, i secondi
si aiutano con l’offesa e con la difesa.
Oltre alle forze e all’ardire, al
soldato sono necessarie le conoscenze tecniche e la pratica nel
maneggio delle armi, in particolare di quelle più utilizzate al
giorno d’oggi: picca, moschetto e archibugio.

Data la sua grande esperienza pratica,
il Brancaccio enuclea anche, in via incidentale, le principali
accortezze e abilità richieste al soldato nell’uso delle tre armi
in oggetto.
Nei primi decenni del Seicento si conclude il periodo
di coesistenza fra l’archibugio e la sua evoluzione (che infine lo
soppianta in modo definitivo), il moschetto. Quest’ultimo è più
pesante, ha un calcio per appoggiarlo alla spalla e ha una gittata
più lunga. In questo senso, la testimonianza del Brancaccio è
fondamentale, visto che si esprime, senza mezze misure, sulla
superiorità del moschetto e l’ormai quasi inutilità
dell’archibugio. Da sottolineare anche il fatto che il Brancaccio
apra il paragrafo con un espressa affermazione di superiorità della
pratica sulla teoria.
Poiché ciascuna di queste armi è
utilizzata da un determinato ordine di soldato, è bene iniziare
dalla picca, che ancora oggi è la più diffusa.
Per quanto sia quasi impossibile
insegnare con le sole parole quelle cose che consistono in azioni, mi
sforzerò di dare alcune regole generali, tali almeno da indirizzare
il soldato diligente a conoscere meglio ciò che deve sapere.

Una delle formazioni usate per i
tercios attorno al 1600.
La picca è un tipo di arma che, per
coloro che non la sanno utilizzare, è più d’impaccio che altro.
Accade spesso di vederla utilizzata come un bastone piuttosto che con
la punta rivolta verso il nemico. Io stesso l’ho vista spesso
colpire il fianco di un cavallo senza ferirlo. Chi, invece, è in
grado di usarla al meglio, ha un enorme vantaggio nei confronti dei
nemici che brandiscono qualsiasi altra arma.
Per prima cosa, il Picchiere non deve
combattere tenendo la picca ferma perché comunque vada a colpire
l’avversario, non arriverà al bersaglio con forza sufficiente. E’
comunque possibile che, per evitare di scompaginare
l’Ordinanza (vocabolo che poteva indicare sia l’organizzazione
del contingente che il contingente stesso), sia necessario non andare
avanti con impeto. Quando un soldato tiene la picca ferma, accrescono
le possibilità, da parte di un nemico accorto, di deviare il colpo e
contrattaccare. Bisogna quindi abbassare la picca e mettere il piede
sinistro davanti, appoggiando l’asta al fianco destro e tenendola
in modo da lasciare che i ⅔ della stessa siano fra la mano e la
punta.
In questo modo sostenere la picca è
più semplice ed è il modo corretto di avanzare. Giunti allo
scontro, per colpire con la picca è necessario alzare entrambe le
braccia e, tenendola più verso il tallone allargando la mano
sinistra, spingerla in avanti con veemenza contro il nemico,
ritirarla e spingere ancora. Tutto questo fino a che è possibile
continuare. Un uso del genere dà grande vantaggio anche contro
nemici più forti e robusti, come gli Svizzeri, ma che usano la picca
in modo più statico.
Contro la cavalleria invece, è bene
tenere la picca ferma, appoggiata al fianco e con il piede saldo in
terra. Lascio ad altri l’usanza di bloccare il tallone della picca
con il piede destro, o addirittura con il piede di un soldato della
seconda fila, visto che si tratta di stravaganze tecnicamente poco
valide. Sempre riguardo al combattimento contro la cavalleria, è
necessario stringere le fila, in modo che la seconda e la terza
(fila) possano mettere le punte delle loro picche sulla stessa linea
di quelle della prima. Così strette e fitte, le picche sono adeguate
a sostenere l’urto della cavalleria.
Oltre alle armi, i picchieri dovrebbero
essere equipaggiati con morione, piastra pettorale, spallacci,
scarselle e mognoni (protezione spalle). Questi ultimi forse non
difendono bene come i bracciali, ma offrono una difesa sufficiente e
sono molto comodi e leggeri.
Al soldato non deve dare fastidio il
peso delle protezioni, che gli saranno più utili in battaglia che
insopportabili durante il riposo. E tutto il sudore che verserà
dentro di esse gli risparmierà di versare il proprio sangue.
Il Moschettiere deve essere dotato di
un buon moschetto, con la sua forcina, e curarne la manutenzione.
Deve anche cercare di essere sempre provvisto di munizioni, tenendo
il fiasco sempre pieno di polvere; tuttavia, reputo che la soluzione
migliore sia attaccare le cariche già pronte a una tracolla, poiché
in questo modo si riesce a caricare in modo più agevole e veloce. Un
altro vantaggio di questa soluzione è quello di evitare i gravi che
può provocare l’esplosione fortuita del fiasco.
Il Moschettiere deve essere parimenti
diligente nella cura della miccia, che deve sempre tenere
all’asciutto e ben coperta in caso di umidità. Può così evitare
di ritrovarsi con una miccia bagnata e inutilizzabile nel mezzo dello
scontro, e finire ucciso al posto del nemico cui avrebbe dovuto
sparare. Deve portare con sé anche due dozzine di palle per il suo
moschetto. Visto che si tengono attaccate alla parte bassa della
tracolla con una corda, non gli saranno di alcun peso.
E’ bene che il Moschettiere sia
dotato di una spada corta e larga, e tenuta in modo da poterla
estrarre velocemente con una mano, senza lasciare il moschetto, come
invece accade con la spada lunga, che in spazi ristretti può dare
problemi anche ai compagni.
L’Archibugiere deve essere molto
lesto e veloce con la sua arma, e ben provvisto di munizioni da
conservare al meglio. E’ necessario che abbia un morione, poiché
gli archibugeri servono a rimpinguare gli squadroni e lì possono
essere facilmente colpiti alla testa. Non vorrei comunque più
archibugieri di quelli necessari a guarnire gli squadroni, poiché in
quasi tutti i contesti si possono ottenere risultati migliori dai
moschettieri.
Più in generale, il soldato deve
osservare l’Ordinanza in modo rigoroso, e quindi di andare alla sua
bandiera al minimo tocco di tamburo e mettersi nella prima fila
(senza però occupare la posizione degli ufficiali) al posto
assegnatogli dal Sergente. Durante la marcia, il soldato deve seguire
il commilitone che gli cammina davanti e marciare al passo degli
altri. Deve comunque mantenere la stessa distanza dalla fila che
precede la sua e dai suoi compagni di fila. Quando la fila davanti si
ferma, deve farlo anche lui, mantenendo sempre le distanze
menzionate. Per capire se si trovi ben allineato, ogni soldato deve
avere come riferimento il soldato al centro della sua fila. In questo
modo, si manterrà sempre la giusta ordinanza.

L’Assedio di Maastricht del 1632.
Lelio Brancaccio faceva parte dei difensori alla venranda età di 72
anni.
Nel corso della battaglia, il Picchiere
deve essere lesto ad abbassare la picca verso il nemico che attacca.
I soldati delle seconde file, nel caso siano uccisi o feriti i loro
commilitoni in prima fila, devono subentrare al loro posto. A questo
punto, la terza fila deve prendere il posto della seconda e così
via.
Il Moschettiere invece non deve essere
frettoloso e tirare senza prendere la mira, poiché è meglio sparare
poco e colpire, che sparare molti colpi a vuoto. Per lui è
fondamentale l’attenzione alla fase di carica, perché non deve
dimenticare polvere e palla.
In caso di ritirata, il Moschettiere
deve indietreggiare con calma, continuando a bersagliare il nemico
con i propri colpi (nel saggio sull’ Assedi di Malta del 1565,
abbiamo parlato di un episodio del genere quando i Giannizzeri
evitano danni maggiori proteggendo la ritirata dell’esercito
ottomano verso la spiaggia). In questo modo, il nemico difficilmente
si accorgerà che si tratta di vera ritirata.
L’Archibugiere che si trovi in una
guarnigione deve sparare in modo accorto. A volte, la cavalleria
manda avanti un gruppo di cavalieri per far sparare gli archibugieri
e poi sorprenderli con il grosso degli uomini durante la ricarica.
Per questo è importante che si faccia fuoco con i cavalieri quasi
addosso e con le picche dei propri commilitoni pronte ad abbassarsi.
Se la guarnigione non deve muoversi dal
punto in cui si trova, le prime due file dovrebbero sparare e poi
abbassarsi, in modo da permettere il tiro della terza e così via
fino alla quinta. A quel punto, la prima e la seconda dovrebbero aver
concluso le operazioni di carica e riprendere esse stesse a fare
fuoco.
Fra le altre qualità necessarie al
soldato, Lelio Brancaccio inserisce l’ubbidienza agli ordini, la
fedeltà e la capacità di soffrire e faticare. Specifica però
che tutte
queste buone qualità saranno vacillanti, e caduche, se non sono
accompagnate dal timor d’Iddio, e dalla buona religione. I
soldati che si lasceranno andare e a bestemmie, sessualità e vizio
possono star certi che le
spade inimiche saran contra di loro rigorose ministre della giustizia
Divina.