lunedì 11 aprile 2022

Qual è lo scopo dietro il cappuccio del boia?

Maschera di ferro con nasello grottesco, sopracciglia modellate e fronte solcato, indossata dal boia, in Europa, dal 1501 al 1700.

Era indossato principalmente per proteggere la loro identità anche se non venivano indossati così spesso.

"Si dice che un boia abbia indossato questa maschera prima di infliggere il colpo finale, con un'ascia o una spada. Dà l'idea di una figura raccapricciante ed è volutamente macabro e minaccioso per terrorizzare ulteriormente il prigioniero. I boia indossavano spesso maschere per nascondere la loro identità ed evitare qualsiasi punizione. Erano spesso fischiati e beffati, specialmente se la persona da giustiziare era una figura popolare o simpatica al popolo."

Simbolici o reali, i carnefici erano raramente incappucciati e non erano vestiti di nero; i cappucci venivano usati solo se l'identità e l'anonimato di un boia dovevano essere preservati dal pubblico.

domenica 10 aprile 2022

Come si produceva il ghiaccio in epoca medievale?

 

Non si produceva. Fino a quando il ghiaccio della refrigerazione moderna non è stato prodotto, poeva essere salvato per tutta l'estate, in ghiacciaie appositamente costruite.



La ghiacciaia era solitamente costruita nella parte più fresca e ombreggiata del territorio, spesso sulle montagne più vicine. La sua parte principale era semi-sotterranea e in inverno sarebbe stata riempita con ghiaccio pulito e neve compatta, che sarebbero stati poi ricoperti con materiali isolanti per mantenerli ulteriormente freschi. La porta della ghiacciaia era sempre rivolta a nord, e l'apertura aveva una serie di porte per sigillare meglio al freddo. Infine, di solito la struttura era ricoperta di terra ed erba. All'interno della ghiacciaia ci sarebbero stati scaffali e rastrelliere per conservare gli alimenti che dovevano essere conservati al freddo.

Il ghiaccio verrebbe quindi trasportato in grandi blocchi impilati su carri e ben isolati con fogli di tessuto per mantenerlo pulito e strati di materiali isolanti. Un carico di ghiaccio potrebbe diminuire fino alla metà della sua quantità originale durante il trasporto, ma di solito ne sarebbe rimasto abbastanza che potesse servire allo scopo di chiunque fosse destinato. In altri casi, i ricchi avrebbero costruito una ghiacciaia vicino ai loro palazzi e il ghiaccio portato lì dalle montagne vicine, in modo da avere sempre il ghiaccio a disposizione per preparare fresche prelibatezze per l'estate.





sabato 9 aprile 2022

Araldo

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Araldo è il termine riferito a un incarico ufficiale i cui compiti furono diversi nelle varie epoche storiche.
Tra gli antichi greci l'araldo aveva il compito di rendere pubblici gli atti e disposizioni delle autorità civili e religiose (funzione poi ereditata dal banditore) e talvolta di mantenere le relazioni con popoli stranieri o nemici. Grande era l'importanza degli araldi, detti kérukes, soprattutto nell'età omerica e conservarono fino al IV secolo a.C. in Atene funzioni di un certo rilievo nelle assemblee popolari.
Nel medioevo, gli araldi erano pubblici ufficiali addetti alle corti dei sovrani e dei grandi feudatari ed agli ordini cavallereschi. Inizialmente usati per l'organizzazione di tornei cavallereschi, divennero poi esperti di blasoni ed anche, in campo militare, messaggeri usati per la dichiarazione di guerra o l'intimazione di resa.
In epoca contemporanea, esistono ancora alcuni paesi dispongono ancora di araldi, in particolare il Regno Unito, il Sudafrica, la Spagna ed il Canada. Sono presenti anche in Scozia, Irlanda e Paesi Bassi.

Storia
Età antica
Nei poemi epici della classicità si incontrano alcuni araldi: Taltibio e Dolone nell'Iliade; Venulo nell'Eneide.
Simili agli araldi greci, detti kerukes, erano nell'Antica Roma i calatores e gli apparitores, i primi per gli uffici religiosi, i secondi per i pubblici. Erano poi presenti i feciales con compiti istituzionali.
Passando al medioevo, gli araldi erano pubblici ufficiali addetti alle corti dei sovrani e dei grandi feudatari ed agli ordini cavallereschi. Non risulta alcun legame tra gli araldi greci e romani, da un lato, e gli araldi medioevali. Tale connessione sembra che sia stata creata nel XV secolo dagli araldi stessi, allo scopo di provare l'antichità e la nobiltà del loro ufficio in un momento in cui era messo in discussione.
Gli araldi d'armi, apparsi verosimilmente nel XII secolo (come risulta da una citazione tratta da Chrétien de Troyes datata alla fine del secolo), sono strettamente collegati allo sviluppo dell'araldica che da essi trae il nome.
Tratti dai ranghi dei giocolieri e dei menestrelli, gli ufficiali d'armi si specializzarono nei tornei, nelle giostre equestri e nei passi d'armi. Essi li annunciavano, vi conducevano i Cavalieri e li commentavano. In origine non erano legati ad un nobile in particolare, e conducevano una vita errabonda, contribuendo così alla fama di diversi cavalieri, raccontando le loro imprese ovunque si recassero. Questo ruolo ebbe un'influenza notevole sul loro ufficio.
In effetti tutta l'organizzazione del gruppo è legata ai tornei. All'inizio la distinzione degli ufficiali in base all'area di origine corrisponde alle divisioni territoriali dei gruppi di cavalieri nei tornei. In seguito, la gerarchia degli ufficiali d'armi è del pari sottoposta, almeno sul piano simbolico, alla cavalleria ed ai tornei. In effetti, come rammenta Olivier de la Marche nelle sue memorie, occorrono sette anni perché un attendente possa divenire araldo. La durata corrisponde al tempo occorrente ad uno scudiero per divenire cavaliere.

Medioevo
Questo ruolo nei tornei ne fece degli esperti nei blasoni, cosa che permise loro di avere delle funzioni militari ufficializzate all'inizio del XIV secolo come mostra l'ordinanza di Filippo il Bello nel 1306 sul guanto di sfida. In effetti, non vi era uniformità nei contingenti di truppe forniti dai nobili, ed i combattenti si riconoscevano solo dalle armi che figuravano sulle bandiere, sui pennoni e sugli scudi. La conoscenza dei blasoni acquisita nel frequentare i tornei permetteva agli ufficiali d'armi di riconoscere rapidamente i protagonisti e di seguire lo svolgimento delle battaglie. Tutto ciò li rendeva preziosi, specialmente nel XIII secolo, quando le armi si sono meglio definite. Così essi si fermarono presso dei signori, pur conservando alcune peculiarità ereditate dal loro antico vagabondare, come la funzione di messaggeri, facilitata dalla immunità di cui godevano (in particolare il diritto di circolare liberamente ovunque si recassero). Essi acquisirono anche nuove competenze, specie nella definizione delle regole in materia di araldica e nella composizione degli armoriale.
Essi svolgevano sia compiti civili che militari.
Tra quelli civili c'era innanzitutto la compilazione dei rotuli degli stemmi e la cura dei registri di nobiltà. Erano anche responsabili del corretto svolgimento dei tornei tra cavalieri dei quali garantivano la regolarità delle armi utilizzate e, alla fine, ne proclamavano il vincitore. Partecipavano, inoltre, a tutte le cerimonie solenni di corte svolgevano incarichi diplomatici di fiducia presso i sovrani esteri.
In campo militare svolgevano il compito di messi per la dichiarazione di guerra o l'intimazione di resa. Per lo svolgimento di questi compiti erano considerati inviolabili. Gli araldi erano sempre nobili o erano nobilitati all'atto della nomina che avveniva con cerimonia solenne. Il nuovo araldo assumeva un nome spesso di un feudo o di un ordine cavalleresco e vestiva una cotta di velluto armeggiata. Prestavano, inoltre, uno speciale giuramento e formavano un collegio che eleggeva un capo detto re d'armi.

Età moderna e contemporanea
Secondo i contemporanei, il XV secolo fu un periodo di crisi per l'ufficiale d'armi. Senza dubbio, vi ha molto contribuito il diritto accordato ad un capitano di media importanza di avvalersi dei servigi di un cavalcatore. In effetti, questa misura ha sicuramente comportato la moltiplicazione degli apprendisti, talora reclutati tra persone ritenute dai loro stessi pari indegne di questo ufficio, "de vielz menestrels qui ne poient plus corner" come dice l'araldo Sicile. Ma ciò che ha reso più debole il corpo degli ufficiali d'armi nel XV secolo fu senza dubbio il passaggio dall'esercito medioevale formato da truppe eterogenee (ost feudale) all'esercito permanente stipendiato. In Francia, a partire dal 1445, ai contingenti di vassalli che si radunavano sotto la bandiera del loro signore si sostituirono le compagnie d'ordinanza. Il ruolo militare degli ufficiali d'armi sparirà del tutto dopo la Guerra dei Trent'anni, il loro ruolo araldico scomparirà nel 1615, data di creazione dei giudici d'armi. Paradossalmente questo periodo di declino subito dagli araldi nel XV secolo può essere visto come l'apogeo dell'ufficiale d'armi. Infatti basta considerare la costituzione del collegio araldico francese nel 1406 o le richieste presentate ai principi presenti al congresso di Arras del 1435 per comprendere che gli araldi costituivano un corpo molto importante e riconosciuto di quel secolo.
Il vero declino dell'ufficiale d'armi sembra piuttosto porsi nel XVI secolo. Ciò fu dovuto ad un insieme di fattori di cui il principale appare essere il passaggio dal sistema feudale allo stato moderno che trasferisce tutti i poteri al monarca e sottrae alla nobiltà il suo carattere militare. Questo fenomeno si amplierà nel XVII secolo e l'ufficiale d'armi perderà le sue prerogative principali. Abbiamo già detto che il loro ruolo araldico scomparirà nel 1615, al momento della creazione dei giudici d'armi. Nel 1627 il collegio araldico francese perse la sua indipendenza e fu inserito nella struttura della casa reale dopo la soppressione del Conestabile. Poco più tardi furono messe in discussione le loro funzioni militari: Luigi XIII sarà l'ultimo re di Francia a circondarsi di araldi durante la Guerra dei Trent'anni. Infine il ruolo di maestri di cerimonie sarà loro sottratto dall'introduzione degli ambasciatori. Poi l'ufficiale d'armi, ridotto ad un semplice elemento della pompa imperiale e monarchica, sopravviverà in Francia fino al 1830. Così degli ufficiali d'armi parteciparono all'apertura degli Stati Generali del 1789, ai funerali di Luigi XVIII e alla consacrazione di Carlo X nel 1825. Li si ricorda per l'ultima volta alla testa del corteo del Te Deum che celebrava la presa di Algeri nel 1830.
Dopo quell'epoca gli uffici propriamente araldici passano ai consiglieri giudici d'arme ed ai genealogisti di corte, quelli cerimoniali ai maestri di cerimonie. Oggi solo alcuni paesi dispongono ancora di araldi, in particolare il Regno Unito, il Sudafrica, la Spagna ed il Canada. Sono presenti anche in Scozia, Irlanda e Paesi Bassi.

Gerarchia araldica inglese
In Inghilterra gli ufficiali d'armi sono identificati con nomi propri che si tramandano da un ufficiale all'altro e ormai si possono considerare coincidenti con la carica.
  • Al vertice si trova il conte maresciallo (Earl Marshal) al cui fianco opera una Corte di Cavalleria.
  • Seguono i re d'armi: Garter (il principale), Clarenceaux (competente per l'Inghilterra meridionale) e Norroy and Ulster (competente per l'Inghilterra settentrionale e l'Ulster)
  • Vi sono poi gli araldi d'armi ordinari: Chester, Lancaster, Richmond, Somerset, Windsor, York
  • Ancora i persivanti d'armi: Bluemantle, Portcullis, Rouge Croix, Rouge Dragon
  • Infine gli araldi d'armi straordinari: Arundel, Beaumont, Maltravers, New Zealand, Norfolk, Surrey, Wales.
  • Per ultimo il Pursuivant straordinario: Fitzalan.

Gerarchia araldica scozzese
  • Re d'armi: Lyon
  • Araldi d'armi ordinari: Albany, Islay, Marchmont, Rothesay, Ross, Snowdoun
  • Araldo d'armi straordinario: Orkney
Gerarchia araldica canadese
  • Capo Araldo
  • Araldi d'armi ordinari: Assiniboine, Athabaska, Coppermine, Fraser, Miramichi, Saguenay, Saint-Laurent
  • Araldi d'armi straordinari: Albion, Capilano, Cowichan, Dauphin, Niagara, Rouge
  • Araldo d'armi emerito: Outaouais, Rideau
Gerarchia araldica indiana (dell'Impero dell'India)
  • Araldo d'armi straordinario: Delhi



venerdì 8 aprile 2022

Cavalleria medievale

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La cavalleria medievale è stata una classe nobiliare della società europea del Medioevo, che identificava i guerrieri a cavallo a cui un sovrano o un signore ne aveva riconosciuto il titolo, e il relativo ideale di vita e codice di condotta a cui questi cavalieri si ispiravano.
La cavalleria seguì l'evoluzione che la società, l'economia e la tecnica bellica ebbero nel Medioevo, influenzate, fra l'altro, dall'affacciarsi sullo scenario storico europeo di nuove popolazioni con nuovi usi e nuovi modi di guerreggiare.
Fu una evoluzione lenta ma costante, qualche volta tumultuosa in coincidenza con l'arrivo di nuovi attori sui campi di battaglia, ma sempre coerente con i cambiamenti del contesto socioeconomico che ne era il supporto.
La crisi che colpì i liberi coltivatori romani del periodo repubblicano inferse un duro colpo alla potenza della fanteria legionaria, ben più grave ed irrimediabile dei colpi subiti dalla stessa ad opera dei cavalieri Parti e Sarmati.
Quella potenza legionaria che aveva conquistato un impero iniziò a decadere con la decadenza di quell'archetipo dell'uomo romano che ne era stato la base e la forza.

Teorie sull'origine
Negli anni trenta del XX secolo si sostenne che all'inizio dell'XI lo sviluppo e la diffusione di signorie di banno, incentrate sui castelli, avevano contribuito ad alimentare una crescente cerchia di specialisti della guerra, formata dai signori e dai loro vassalli. Il mestiere di cavaliere andò sempre più specializzandosi e circoscrivendosi a una élite ristretta che diede vita a una cerimonia di iniziazione del cavalierato, che contribuì alla percezione della cavalleria come gruppo limitato. Tra il XII e il XIII secolo essa, definendosi in un ceto chiuso a base ereditaria, passa dalla condizione di "nobiltà di fatto", ovvero dall'organizzazione in forme aperte e fluide, alla condizione di "nobiltà di diritto".
Alla tesi di Bloch che sostenne che la cavalleria si fosse costituita come emanazione della condizione nobiliare, Jean Flori ha eccepito un'altra teoria, del tutto opposta, che considerava la cavalleria come una professione alla quale la nobiltà si avvicinò e della cui dignità, col tempo, si appropriò. Il mestiere del cavaliere era stato inizialmente riservato a persone di estrazione variegata e anche di umile origine, come dimostra l'etimologia del termine knight che deriva da cnith che designava il "servitore".[2] Solo nel XIII secolo, anche attraverso la formazione di un'etica e di un codice di comportamento del cavaliere, il cavalierato e la carica nobiliare conoscono una chiara sovrapposizione. Fu in quest'epoca che si diffuse la pratica dell'adoubement (addobbamento, vestizione), che attribuiva alla cavalleria il significato di "ordine" ristretto ed esclusivo.

I Barbari
Popolazioni nuove, ora si direbbe giovani, premevano sull'Impero: alcune erano formate da provetti cavalieri che passavano la maggior parte della propria vita letteralmente e materialmente sul cavallo, come gli Unni, gli Alani e, in genere, i popoli della steppa. Questi popoli, che basavano la propria forza militare su una cavalleria organizzata, non riuscirono, tuttavia, a innervarsi in quella società europea che per loro era solo occasione di scorrerie, rapine e bottino. Altre popolazioni, invece, fecero proprio quell'Impero tante volte combattuto e subìto. Furono i Franchi, i Sassoni, i Frisoni, i Longobardi, gli Juti che si imposero, ricreando, o contribuendo a ricreare, quel nuovo Impero che il Papato avrebbe cercato di rendere unito come comunità cristiana e di subordinare a sé stesso.
Queste nuove genti germaniche e nordiche, che in effetti non possedevano una cavalleria nel senso militare del termine, combattevano a piedi anche se il cavallo era il loro mezzo di locomozione. Il cavallo era considerato più un segno di distinzione di cui godevano e si fregiavano i capi che non un mezzo bellico, e ciò sia per il suo costo, particolarmente elevato, sia per la simbologia sacrale che gli era connessa. Il cavallo accompagnava il guerriero nella sepoltura per l'ultimo viaggio, secondo una tradizione che risaliva alle saghe germaniche, conferendo così al cavaliere quell'alone di mito che lo accompagnerà nelle epoche in cui la funzione della cavalleria sarebbe venuta meno e che le canzoni di gesta epiche avrebbero perpetuato.
Il cavaliere non si improvvisava, veniva addestrato fin dalla fanciullezza e, quindi, armato con un equipaggiamento il cui costo poteva superare quello di 20 buoi, in pratica una piccola proprietà terriera.
Era fatale, così, che si sviluppasse nella società una divisione netta o meglio una frattura incolmabile fra il cavaliere consapevole del proprio costo e della propria funzione.

«la massa dei rustici che si vedevano sospinti insieme con la gente dei campi di origine servile verso un ruolo indifferenziato di produttori di mezzi di sostentamento.»
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere.)


Si formò spontaneamente un gruppo elitario, separato e autoreferente che si autocelebrava anche attraverso il racconto delle proprie imprese, sempre eccezionali, e anche attraverso quella che sarà una vera e propria liturgia dell'iniziazione e dell'accettazione o cooptazione in un circolo sempre più chiuso. La letteratura epica si incaricherà di idealizzarne e celebrarne gli aspetti eroici, il più delle volte usurpati.
Sorse, anche, l'esigenza di distinguersi e di rendersi riconoscibili sia in battaglia che nei tornei, e quindi si diffuse l'uso di colori e di emblemi posti sullo scudo del cavaliere, che daranno origine all'Araldica, o scienza del Blasone.
Lentamente si consolidò quella che era una fraternitas, la cavalleria medievale, con regole sempre più rigorose che subiranno, tuttavia, continue eccezioni. La separazione dal mondo dei rustici aumentò sempre di più ed il solco iniziale divenne una voragine. Da una parte pochi eletti, dall'altra la massa disprezzata e sfortunata degli inermi o pauperes che avevano una sola possibilità di riscatto: mettere la propria vita in gioco nei campi di battaglia al servizio di qualche Senior.

Il mito
Era un mito quello che il cavaliere medievale coltivava, esaltandolo in quelle fraternitas che daranno luogo ad una vera e propria classe sociomilitare particolarmente rigida ed impermeabile, alla cui base c'era lo spirito di gruppo e di corpo.

«Questo è forse il senso più riposto ma anche più evidente dell'immagine raffigurata nel controsigillo dell'Ordine Templare, che mostra due cavalieri su un solo cavallo.»
(Cardini F. - Il Guerriero e il Cavaliere)

La storia concorrerà notevolmente all'affermazione di questa nuova classe di guerrieri, separandola sempre di più dal resto della società, gli inermes, che venivano subordinati e sottoposti a quei bellatores equestri che costituivano la base del potere.

Le opportunità dei cavalieri
Certo il servizio militare, oltre ai rischi, offriva notevoli vantaggi a quei soggetti che, per capacità o fortuna, ne sapevano approfittare. Le opportunità di arricchimento a seguito delle azioni belliche erano grandi, sia attraverso i bottini rapinati sia attraverso il riscatto dei prigionieri, specie se di alto lignaggio. Ciò costituiva un valido compenso per il rischio di perdere la vita, rischio sempre presente e sempre messo in conto.
Il miraggio era quello di passare dal servizio presso altri alla formazione di una propria dinastia, e, magari, acquisire una propria signoria o conquistare un proprio regno. Fu quello che seppero fare i Normanni, vere e proprie bande di avventurieri al servizio di signori in guerra tra loro, signori che prima aiutavano e ai quali poi si sostituirono approfittando della favorevole situazione politico-militare dei territori che occupavano.

I normanni
I Normanni riuscirono, senza grande difficoltà, non solo a sostituirsi ai loro, per così dire, datori di lavoro ma a fondare, oltre che un regno importantissimo nell'Italia meridionale, una dinastia dai cui lombi discese una progenie destinata alla dignità imperiale. L'avventura dei numerosissimi cavalieri normanni giunti prima nel Meridione dell'Italia continentale e successivamente in Sicilia è fantastica ed affascinante. È impressionante vedere come un manipolo di uomini decisi, ma sostanzialmente dei briganti quasi emigranti ante litteram, costretti a lasciare le loro terre di origine - la Normandia, sulle coste nordoccidentali della Francia - riuscirono a inserirsi nelle lotte intestine di quel che restava del Ducato di Benevento, dei vari principati longobardi e del declinante Impero Bizantino nell'Italia meridionale e a prendere il sopravvento. Vi fu anche il fortunato gioco di circostanze favorevoli che, sapientemente sfruttate, contribuirono alla loro affermazione politico-militare.
I Normanni, che stavano per impadronirsi dell'intero Meridione d'Italia, ottennero il riconoscimento del loro potere e delle loro conquiste dal papa Niccolò II prima di lanciarsi alla conquista della Sicilia: questo riconoscimento papale legittimò quello che era un puro atto di violenza.

Il nuovo
Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle milizie di fanti che, inquadrate dal Comune, non erano più quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto sempre successo.
Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio organizzate e coese, dotate dell'addestramento acquisito nelle gare cittadine, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito d'emulazione ma, cosa ben più importante, lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli, decisi e, quindi, temibili.
Questi uomini che, normalmente, svolgevano nella vita quotidiana altri compiti, che non le arti marziali, esprimevano, nel momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, tutta la loro determinazione bellica, frutto del rancore contro l'aristocrazia militare: essi trascuravano quell'aspetto ludico che era stato una caratteristica del combattimento dei cavalieri. Questi cittadini nel combattimento erano micidiali, le loro picche e le loro quadrelle non lasciavano scampo.

Nuove armi
Le nuove armi vincenti erano le picche, l'arco e la balestra, che, in un'unione simbiotica dietro il pavese, un grande scudo, costituivano per i cavalieri un ostacolo, o, per meglio dire, un muro insuperabile, quasi sempre letale. Il cavallo che era stato un'arma vincente si trasformò in un gravissimo punto di debolezza ed impedimento.
In questo nuovo modo di combattere il cavallo soccombette sotto i colpi di coltello del fante che strisciando per terra lo sventrava, in un'azione inconcepibile per il cavaliere e per il suo codice deontologico: al cavaliere rinchiuso nella sua pesante corazza d'acciaio non rimaneva che fuggire o, disarcionato e circondato, morire come un povero crostaceo sotto i colpi della plebaglia a piedi. Queste nuove battaglie si concludevano in un mare di sangue, in un tripudio di vendette e di rivalse da parte dei rustici contro un mondo, quello feudale, che ormai volgeva alla fine.
Era un mondo carico di valori, forse mai realmente esistiti ma sicuramente idealizzati e vagheggiati, che sopravviverà solo nelle chansons. I cavalieri, superstiti di questo mondo sentito da loro come unico e vero, andranno lietamente a farsi scannare da rozzi bottegai e cupi artigiani che combattevano solo per affermare, in un duello, da loro vissuto come mortale, la loro esistenza civile, la loro capacità economica e la necessità di continuare a sviluppare liberamente quelle attività economico-commerciali dal cui successo derivavano rilevanza sociale e forza politica.

Le gentes novae
Per queste gentes novae, la guerra non era un gioco, una festa in cui mettere in mostra le proprie virtù cavalleresche magari per gloriarsene agli occhi di una dama o nel caso fortunato per appropriarsi di un bottino e di un ricco riscatto, bensì un mortale e costoso incidente che metteva a rischio le conquiste economiche acquisite, oltre che la loro stessa sopravvivenza.
Laddove il cavaliere vedeva nel cavaliere nemico un confratello in campo opposto, il mercante che combatteva vedeva nel cavaliere solo un soggetto che interrompeva la sua attività facendogli perdere denaro e rischiare la vita e perciò lo doveva eliminare, cioè uccidere.
Il mercante combatteva libero da qualsiasi deontologia militare e sotto lo stimolo dell'urgenza di tornare presto ai propri affari sospesi.
Tutto ciò era vissuto come scandaloso dai cavalieri: guai al cavaliere che incontrava sul campo di battaglia qualche macellaio armato che, pratico nello squartare l'oggetto della propria attività lavorativa, non aveva remora alcuna a fare altrettanto prima col cavallo e poi con il cavaliere.

Valori della cavalleria e investitura del cavaliere
Grazie all'importanza acquisita sul piano militare, la cavalleria divenne un mezzo di ascesa sociale sia tra l'aristocrazia che possedeva i beni e i diritti nel territorio circostante la città sia tra i ceti cittadini più elevati. I cadetti diventavano cavalieri in quanto erano esclusi dall'eredità. Dal secolo XI la cavalleria diventò un ceto sociale chiuso: tranne rare eccezioni, diventava cavaliere solo chi era figlio di cavaliere. Gli ideali condivisi erano: difesa dei più deboli, lealtà verso il proprio signore, valore fisico ed integrità morale. Intesa in questo nuovo senso la cavalleria diventò per secoli il riferimento di tutta la nobiltà europea, anche di quella che non aveva origini militari.
I cavalieri appartenevano al secondo ordine della società (i bellatores), mentre il primo ordine era costituito da coloro che avevano il compito di pregare (oratores) ed il terzo da coloro che avevano il compito di lavorare (laboratores). Al fine di contenere la violenza di molti guerrieri, alcuni vescovi della Francia sud-occidentale ed alcuni monaci fecero ricorso alle paci di Dio: essi convocavano una pubblica assemblea in cui tutti giuravano di mantenere la pace, impegnandosi in particolare a non colpire chi non portava le armi (contadini, pellegrini, uomini di Chiesa). Nato negli anni settanta del X secolo, il movimento delle paci di Dio si diffuse nel resto della Francia ed in altre regioni europee nel secolo XI quando, in numerosi concili vescovili, si stabilì anche la tregua di Dio. Il cavaliere era un miles Christi, soldato di Cristo, che serviva legittimamente Dio anche con le armi, anzi morire per la difesa della fede cristiana era un mezzo per conseguire la salvezza eterna.
Il cavaliere trascorreva in una cappella la notte precedente l'investitura, in meditazione e preghiera, e indossando una veste bianca segno della purezza da conseguire. L'addobbamento del cavaliere era all'inizio un rito molto semplice: davanti a testimoni, il signore consegnava la spada, in precedenza benedetta, e il cinturone e gli dava uno schiaffo sulla guancia col palmo della mano, o gli dava un colpo sulla nuca con la spada di piatto. Il nuovo cavaliere, che stava in atto di preghiera, dimostrava così di essere pronto a superare le fatiche e i pericoli delle battaglie. I cavalieri si misuravano anche in competizioni chiamate giostra e torneo.

Codice cavalleresco
Dal secolo XI si assistette, anche per effetto della generale ricostituzione della società europea, ad un ingentilimento dei costumi dei cadetti, che si professavano protettori dei deboli, delle vedove e degli orfani, devoti ad una domina (da cui il nostro donna) alla quale prestavano giuramento di fedeltà e in nome della quale compivano le proprie gesta. In generale il codice cavalleresco, cosa che poi ha contraddistinto il concetto di "cavaliere" nell'immaginario collettivo, ruotava intorno ad alcuni valori e norme di comportamento, come la virtù, la difesa dei deboli e dei bisognosi, la verità, la lotta contro coloro che venivano giudicati malvagi e gli oppressori, l'onore, il coraggio, la lealtà, la fedeltà, la clemenza e il rispetto verso le donne.

Il tramonto della cavalleria
Il momento magico dei cavalieri medioevali fu l'avventura delle Crociate, specie la prima, trascorso il quale iniziò la loro crisi lentamente per continuare, poi, sempre più rapidamente, crisi che culminerà nella battaglia degli Speroni d'Oro a Courtrai, 1302. In questa battaglia, simbolicamente ritenuta la fine dei cavalieri medioevali, come funzione militare definitiva, le truppe formate da mercanti ed artigiani delle Fiandre massacrarono i cavalieri francesi facendo mucchi dei loro speroni dorati. L'introduzione delle armi da fuoco dette poi il colpo di grazia alla cavalleria che vide sempre più le proprie cariche fermate da piogge di proiettili di archibugio o dai tiri dei cannoni.
Fu il tramonto della cavalleria come arma anche se le sopravvisse, sempre più mitizzata, quell'etica che era stata alla base della fraternitas, cui una stessa mentalità ed aspirazione di vita aveva legato i cavalieri.
Questa specie di «internazionale cavalleresca», che si era costituita tra l'XI ed il XIII secolo, perse davanti alle nuove fanterie comunali la propria funzione militare lasciando, tuttavia, un'eredità di valori e di miti che sarebbero durati nei secoli successivi. Era lo spirito cavalleresco con la sua carica di leggenda che sopravviveva rappresentando valori che i posteri avrebbero esaltato, per non dire creato.

Gli ordini cavallereschi
Questo spirito sopravvisse anche grazie agli ordini cavallereschi che ebbero una funzione reale fintanto che svolsero un'attività politico-militare, e cioè fino al Duecento ma che successivamente o scomparvero come i Templari ad opera di Filippo IV di Francia o si trasformarono in istituzioni puramente simboliche. Continuarono a sopravvivere invece quegli ordini che nati con ideali cristiani e militari, abbandonate progressivamente gli aspetti militareschi hanno mantenuto e rafforzato gli scopi umanitari come nel caso del Sovrano Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, dell'Ordine teutonico e dei Cavalieri dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

«Così la stanca aristocrazia deride il proprio ideale. Dopo avere abbellito, colorato e reso in forma plastica con tutti i mezzi della fantasia, del talento, e della ricchezza il suo sogno appassionato di una vita bella, essa considerò che in fondo la vita non era affatto bella, e rise.»
(Huizinga - L'autunno del Medioevo)


giovedì 7 aprile 2022

Un fatto storico tra i più oscuri e terribili


Nell'antica Cina esisteva una forma di esecuzione chiamata 腰斬; 腰斩 (yāo zhǎn). Il suo nome significa una persona letteralmente tagliata a metà dalla vita. Era riservata solo ai criminali più pericolosi, poiché molte persone non morivano immediatamente dopo essere state tagliate.
Nella dinastia Qing, un funzionario pubblico fu sorpreso a sottrarre denaro e fu condannato ad essere tagliato alla vita. Tuttavia, è rimasto in vita abbastanza a lungo da scrivere, usando il suo sangue, il carattere cinese '' (orribile/brutale) 7 volte prima di morire.
Sentendo questa storia, l'imperatore Yongzheng ne rimase scioccato e abolì la forma di esecuzione.


Non immagino, neanche minimamente, l'immenso dolore che hanno provato le persone che sono state sottoposte a questa atrocità.


mercoledì 6 aprile 2022

L'assedio di Famagosta, una storia dimenticata.

 

L’Assedio di Famagosta ed il Martirio di Marcantonio Bragadin (1571)


La strenua difesa di Famagosta (1570-71), guidata da Marcantonio Bragadin, fu uno dei fatti che ben possono farci comprendere come il rapporto alla base della dicotomia Europei-Arabi sia sempre stato quello fra Assediati e Assedianti.

A guidare l’attacco fu Lala Mustafa Pasha, generale settantenne che pochi anni prima aveva condotto l’infruttuoso Assedio di Malta (1565). Ancora una volta, la sua strategia fu quella di sfruttare una enorme superiorità numerica di uomini ed artiglieria. E ancora una volta, le cose non andarono come previsto.



Sbarcò a Cipro con quasi 100.000 uomini e prese Nicosia senza troppi problemi. La città si era arresa in cambio di un salvacondotto per gli abitanti, ma Mustafa Pasha fece comunque massacrare l’intera popolazione (tranne 2.000 giovincelli venduti come schiavi sessuali a Costantinopoli).

Per intimorire il governatore Bragadin, Mustafa gli fece recapitare una graziosa cesta con la testa del governatore di Nicosia, Niccolò Dandolo, ma la cosa fece solo incazzare ancora di più Bragadin e Astorre Baglioni, capitano di ventura, comandante militare e letterato.


La Fortezza di Famagosta

Ne Gli assedi e le loro monete (491-1861), pubblicato a Bologna nel 1975, M.Traina descrive così le mura di Famagosta: “Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, sono frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, e’ intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti “cavalieri”, che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all’esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco e’ difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, piu’ basso il forte del Rivellino”

Per i primi mesi, Mustafa si limitò a lasciare qualche decina di navi ad incrociare nelle acque circostanti Famagosta (per tagliare i rifornimenti alla città), ma questo permise a Bragadin e Baglioni di consolidare le difese e ricevere l’aiuto di Marcantonio Querini da Creta (1.600 soldati) e della madrepatria Venezia (800 soldati). Purtroppo per Famagosta, gli aiuti in arrivo per Mustafa erano di tutt’altra consistenza. Il suo buon Sultano gli inviò altri 100.000 soldati e altrettanti operai (scavatori di trincee, portatori, ecc.).

Nel febbraio 1571, i difensori di Famagosta erano 8.000 in tutto, in un rapporto di 1:25-30 con gli assedianti ottomani.

Ai 113 cannoni di Mustafa rispondevano i 90 di Bragadin.

Il primo assalto generale musulmano (marzo) durò quasi 10 giorni e lasciò sul campo 30.000 turchi. Nei successivi quattro, avvenuti fra giugno e luglio, caddero altri 20.000 turchi e la maggior parte dei difensori. Durante questo periodo, piovvero su Famagosta (non diversamente da quanto accadde a Malta sei anni prima) oltre 150.000 proiettili. Le mura erano ridotte a un colabrodo e gli abitanti chiedevano a gran voce una resa dei governatori veneziani (già offerta da Mustafa in più di una occasione).


La mappa della città


Nei mesi successivi si susseguirono altri quattro attacchi, che portarono a settemila i morti degli assediati e a ottantamila quelli degli assedianti. Astorre Baglioni si dimostrò geniale nel piazzare mine per i tunnel turchi e guidare sortite di alleggerimento che facevano centinaia di morti. Inoltre, come spiega Gigi Monello nel saggio “Accadde a Famagosta” (Scepsi & Mattana editori, 2006), mentre i turchi passavano intere giornate a riempire di terra il fossato antistante le mura, i veneziani la toglievano durante la notte.

Le cifre riportate, confermate da tutte le fonti, sono spaventose. Probabilmente si tratta delle più gravi perdite (almeno in relazione alle truppe complessive a disposizione) mai sopportate da un esercito assediante. Rupert Gunnis ne parla in questi termini:

80 mila morti tra i turchi, circa 6 mila tra i veneziani … Con una linea di combattimento non più lunga di due chilometri, l’assedio di Famagosta supera le famose stragi di Londonderry e di Verdun.

Alla fine del luglio 1571, a difendere Famagosta erano rimaste poche centinaia di soldati italiani; i generi alimentari scarseggiavano. Oltre a questo, i rinforzi promessi dai regnanti europei tardavano ad arrivare (tanto che le navi iniziarono a riunirsi a Messina solo a fine agosto 1571). Sebbene Bragadin e Astorre fossero contrari alla resa (memori forse del massacro di Nicosia), alla fine i nobili ciprioti gli imposero di accettarla. Il primo agosto 1571, i due consegnarono a Mustafà le chiavi della città e ottennero un salvacondotto per i soldati fino a Creta.

Qui sotto riporto gli eventi successivi alla resa di Bragadin, come descritto in Storia di Salamina presa e di Marc’Antonio Bragadino comandante, un testo redatto da Antonio Riccoboni pochi anni dopo i fatti raccontati e stampato a Venezia nel 1843:

Arrivati appena il Bragadino con gli altri, come abbiamo detto, alla tenda di Mustafà, si ordinò loro che deponessero le armi, e con lieta e benigna maniera lo stesso Mustafà salutò tutti, e con la stessa sua mano li introdusse nella sua tenda, e volle sedere con loro, cominciando un piacevole e grato discorso, laudando la loro industria e fortezza nel difendere la città.

Qualche tempo dopo, tutto convertito in furore, e con tuono imperioso, si rivolse al Bragadino, e gli disse:

Che cosa hai fatto de’ miei prigionieri che tenevi nella fortezza?”

ll Bragadino rispose: “Parte nella fortezza si custodiscono, parte a Venezia furono mandati.”

Mustafà divenendo rosso con li occhi fattisi truci e con la schiuma alla bocca e con voce assai torbida disse:

Così ancora ardisci mentire quando li hai tutti trucidati?”

[…Mustafà, infuriato, e tempesta Bragadin di domande analoghe a quest’ultima. Alla fine ordina alle guardie di prenderli prigionieri..]

Questo gli fu facile [prenderli prigionieri], poiché, come dicemmo, a quelli non fu permesso di entrare nella tenda con le armi, ed erano tutti inermi. Allora quel furibondo comandante, di sua mano cominciando la carnificina, tagliò al Bragadino con la sciabola la destra orecchia, ed ordinò ad uno dei suoi satelliti che gli tagliasse la sinistra; quindi preso dall’ira, comandò che quanti cristiani si trovassero nell’esercito, tutti fossero trucidati.

Così ha egli dato ansa al furore de’ Turchi, che immediatamente trecento cristiani furono tagliati a pezzi. Volle poscia, con ogni perfidia, acciocchè apportasse maggior dolore al Bragadino, che subito fuori della tenda, ed alla presenza di questi fosse tagliata la testa ad Astorre Baglioni, a Luigi Martinengo, ed obbligato egli stesso per tre volte a porgere ii collo, come si fosse per tagliargli la testa, lo insultarono quei scelleratissimi, calpestandolo con li piedi, trascinandolo per terra, sputandogli in faccia, gridando quell’empio Mustafà:

Dov’è il tuo Cristo, che ti liberi dalle mie mani?”

[…] tutto l’esercito cominciò a dirigersi alla città per trucidare i cristiani, e distruggere tutte le abitazioni. Questa cosa, quantunque subito la si sia proibita con pubblico editto, pure molti contro il comando sono entrati in quel la città, e sparsi per le strade, tutti quelli che incontravano, senza distinzione di alcun ordine, di sesso e di età, battevano, spogliavano, maltrattavano, e ne uccisero molti, affliggendo così crudelmente tutti quegli abitanti. Passati poscia al porto, tutti‘ quelli cristiani che erano entrati nei navigli legarono con le catene ai banchi delle galee, rapito loro prima tutto quello che avevano, e percuotendo pur anche col bastone quegli infelici.

Comandò quel crudelissimo comandante che si portassero alla tenda tutte le teste di quelli decapitati, fra i quali fu riconosciuta quella di Andrea Bragadino castellano e di Gio. Antonio Quirini patrizio veneto, e vennero queste unite a quelle di Astorre Baglioni e di Luigi Martinengo.

Nestore Martinengo, essendo per alcuni giorni riuscito a nascondersi da alcuni che godevano la grazia di Mustafà, venne fatto prigioniero. Entrato poi il giorno 4 settembre 1571 nella città, esercitò un comando crudelissimo contro di Lorenzo Tiepolo e di uno de’capitani Manolio Spilotto, albanese. Condotti per la città, colpiti da pugni e da calci, fattosi di loro ogni scherno, e dopo di averli percossi con sassi, vennero impic cati, squartati, tagliati a pezzi, e gettati ai cani. Nel giorno otto dello stesso mese venne condotto il costantissimo Bragadino a tutti i luoghi adoperati al supplizio, soffrendo grande infermità, colla testa mezzo putrefatta per le orecchie che gli si erano tagliate, e che non si erano medicate, forzato in tutti i luoghi innanzi e indietro a portare smisurati sassi, gettato a terra, ed ivi delle cose più turpi interrogato, presente sempre il perfido Mustafà.

Poscia tradotto nella galera di Rapamato, fu l gato ad una tavola, ed innalzato per obbrobrio ed ingiuria sino la cima di un’antenna, dicendo Rapamato, mentre s’innalzava:

Osserva, comandante, se la tua armata arriva? Guarda, o capitano, se sopravviene l’aiuto? Non vedi le tue galere?”

A questo (mentre rideva Mustafà) come ha potuto con moribonda voce il Bragadino rispose:

Perfido Turco, queste sono quelle promesse che sul tuo capo mi hai giurato, che segnasti nelle capitolazioni, scritte e segnate coll’imperiale suggello del tuo signore, e che hai confermato chiamando lddio in testimonio della tua fede? Qual lode e gloria porterai al tuo signore per una città priva di ogni aiuto, che con tante forze, con immensi soldati, coll’eccellente tuo valore non hai potuto espugnare, ma, ricevuta per dedizione, le hai praticate tutte le perfidie possibili? lddio voglia che questa voce possa risonare per l’universo tutto, e si faccia nota a tutti la perfidia de’Turchi. Pure ciò che non posso far palese, lo farà la fama, che renderà pubblico l’esempio a tutti gli uomini della mia morte e di quella crudelissima di tanti innocenti gravati di obbrobrio e d’ingiurie, acciò sia certo documento non doversi prestar fede a quelli che non ne hanno alcuna, e che solo eccedono in crudeltà.”

Dopo di averlo così trattenuto sospeso per lo spazio di mezz’ora, Rapamato ordinò che si abbassasse, e quan tunque fosse tanto debilitato che poteva appena reggersi in piedi, pure si maltrattava, si spingeva, si bastonava-Mentre tanto crudelmente si trattava fra i comandanti, diceva egli:

Straziate il mio corpo, ma il mio coraggio non minorate. ll corpo lo potete lacerare, ma non toglierete alcuna forza al mio spirito.”

Finalmente tradotto nella principale piazza di Salamina destinata al supplizio dei rei, e spogliato dei vestiti, venne legato alla colonna della bandiera, e dal carnefice (o indegna azione!) fu incominciato a scorticare, cominciando dalla schiena e le spalle, quindi passando alle braccia ed al collo, esclamando per facezia quel perfido tiranno: “Fatti turco, se vuoi esser salvo”.


Il martirio di Marcantonio Bragadin


Quel pazientissimo martire niente rispondeva, ma innalzato il capo al cielo, diceva:

Gesù Cristo mio Signore, abbi misericordia di me. Nelle tue mani raccomando il mio spirito. Ricevi, mio Dio, questa mia misera anima, e perdona a quelli che non sanno ciò che si facciano”.

Compita a levarsi la di lui pelle dal capo e dal petto, ed arrivato all’ombellico, quell’ uomo tollerantissimo e costante, perseverante nella fede di Gesù Cristo, volò a quello, la cui divinità aveva testificata col suo santissimo martirio, a quello cui aveva dato il più insigne testimonio col suo sangue, uscendo finalmente da questi terreni legami, da questa carcere mortale, e da quel corpo, nel quale tanto con gloria era stato il suo spirito custodito, e ciò per ’’la scelleraggine esecranda di Mustafà, per l’aperta violazione dei giuramenti e per accuse falsamente inventate.

Il suo capo fu appeso ad una forca nella gran piazza, ed il suo corpo diviso in quattro parti, fu esposto in quattro principali luoghi della città. ll cuore e le viscere in un quinto luogo furono poste. La pelle, di paglia ripiena ed adorna de’ suoi usitati vestimenti, e col cappello rosso coperta in parte la testa ottimamente adattata come se fosse un corpo vivo, fu tradotta per la città e per tutte le strade sopra di un bove, ovvero vacca, con due Turchi che l’ accompagnavano , che sembravano servirlo, uno de’quali teneva l’ombrella alla faccia, e seguitata dallo strepito di molti tamburi e trombe, acciò s’imprimesse maggior terrore nel popolo, spaventato, recitando per editto con grave voce le seguenti parole:

Ecco il vostro signore: venite ad osservarlo, salutatelo, veneratelo, acciò ripetiate da lui il premio di tante vostre fatiche e della vostra fedeltà”.

Fu essa pelle con le insegne e con le teste di Astorre Baglioni, di Luigi Martinengo e di Andrea Bragadino tradotta in una galera, e per comando del feroce Mustafà, come se fosse glorioso spettacolo, o memorabile trofeo, fatta vedere a tutti i popoli della Siria, Cilicia ed altre marittime genti e nazioni.

Insomma, Marcantonio Bragadin e il quasi dimenticato Astorre Baglioni furono massacrati dopo aver scritto una delle pagine più memorabili della storia militare rinascimentale. Mi dispiace molto che la storiografia moderna li ricordi di rado, come fossero parte di un periodo che deve essere insabbiato in nome del politicamente corretto.


L’ultima lettera di Astorre Baglioni

In Astorre Il Baglioni. Guerriero e letterato (2009), Alessandra Oddi Baglioni riporta l’ultima lettera del comandante militare alla moglie: “Vedermi diviso da voi, mi par d’essere come giorno senza sole, anzi corpo senza anima, poiché voi e io insieme siamo la vita di casa nostra… Vi prego, mitigate il tedio del mio stare assente con l’acquisto dell’onore che spero di conseguire nella difesa di Famagosta.”

Un altro resoconto degli avvenimenti di Famagosta proviene da Angelo Gatto da Orvieto (riprodotto parzialmente in L’ultima crociata. Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell’Europa di Arrigo Petacco), un capitano di ventura che combatté nell’assedio e passò duri mesi di prigionia a Costantinopoli. Visto che è quasi sovrapponibile a quello del Riccoboni, immagino che quest’ultimo lo abbia tratto integralmente da quello del testimone diretto. Ad ogni modo, Angelo Gatto aggiunge un episodio raccapricciante, il classico stupro di gruppo:

Il peggio era vedere le meschine zitelle che, in presenza del padre e della madre, facendole stare scoperte, hor dall’una et hor dall’altra parte, a guisa di uno specchio, con gran disonestà facevano dei fanciulli maschi, cosa vituperosa e brutta come è solito alla turchesca et che per honestà taccio..

Chiudo l’articolo con l’ultima parte del racconto di Riccoboni, sulla cui verità storica ho qualche leggero dubbio (anche se l’evento soprannaturale e/o il miracolo venivano inseriti spesso dagli storici del tempo):

Ricorderò una cosa certamente maravigliosa, ma da molti costantemente asserita, e scritta ancora da alcuni storici, e fra gli altri lasciata scritta da Pietro Giustiniani nelle sue memorie. Assicurano che la testa di Marc’ Antonio Bragadino, infissa in lunga asta, e sopra una forca, come dicemmo, collocata, sparse lucente fiamma, simile ai raggi del sole, per tre notti in che rimase esposta, e che da essa esalava un maraviglioso soave odore.

Le loro morti furono vendicate un paio di mesi dopo con la famosa vittoria di Lepanto, che si concluse con la distruzione della flotta turca da parte della Lega Santa. Le divisioni fra stati europei (in pratica Venezia poteva fidarsi più degli ottomani che di francesi e austriaci) impedirono però che una vittoria del genere fosse pienamente sfruttata.

martedì 5 aprile 2022

Quanto può costare un castello oggigiorno?

E se ti dicessi che potresti comprare un castello in Francia, con meno soldi rispetto a un monolocale a Roma?



Una volta case lussuose di baroni e conti, in questi anni si sta registrando un picco di disponibilità di castelli nelle campagne Francesi. Ben 800 castelli sono oggi venduti ad un prezzo ridicolo, con i proprietari che si trovano costretti a ghigliottinare i prezzi sempre di più.

Di seguito una lista, aggiornata al 2017, del prezzario di alcuni castelli francesi (giusto per farsi un'idea sul mercato):

Poitou — €472,500



Picardie — €700-800k



Normandia — €299,600



Picardie — €422,940



Vienne — €519,000



Dordogne — €599,550



Languedoc Roussillon — €890,000